Giuseppe Verdi
Nabucco
Opéra en 4 parties
du 11 au 29 juin 2023

Direction musicale Antonino Fogliani
Mise en scène Christiane Jatahy
Scénographie Thomas Walgrave
Costumes An D'Huys
Lumières Thomas Walgrave
Dramaturgie Clara Pons
Direction des chœurs Alan Woodbridge
   
Nabucco Nicola Alaimo / Roman Burdenko
Abigaille Saioa Hernandez
Zaccaria Riccardo Zanellato
Ismaele Davide Giusti
Fenena Ena Pongrac
Anna Giulia Bolcato
Abdallo Omar Mancini
Il Gran Sacerdote William Meinert

Chœurs du Grand Théâtre de Genève
Orchestre de la Suisse Romande

Coproduction avec les Théâtres de la Ville de Luxembourg,
l’Opéra Ballet Vlaanderen et le Teatro della Maestranza de Séville

Nabucco

Grand Théâtre de Genève

Vos critiques

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Revue de presse

Meraviglioso Nabucco 2.0

Leonardo Crosetti – Le Salon Musical.IT - 25 giugno 2023

source: https://www.lesalonmusical.it/geneve-meraviglioso-nabucco-2-0/

 

Vi è forse differenza tra le guerre di ieri e le guerre di oggi? Sono i singoli a fare la massa o le masse sono composte da singoli? A cosa può portare la sete di potere? Sono queste alcune delle tante domande che potrebbero venire in mente assistendo alla terzultima rappresentazione del Nabucco di Giuseppe Verdi andato in scena al Grand Théâtre de Genève, nella nuova produzione affidata alla regia di Christiane Jatahy e alla direzione musicale di Antonino Fogliani.

Nabucco è sicuramente opera simbolo di Verdi e del melodramma italiano, ma è portatore di significati che spaziano dalla prese del potere al rapporto con Dio, dai rapporti famigliari allo scontro tra popoli, sino all’amore declinato nelle sue più varie forme.

Christiane Jatahy si approccia all’opera verdiana volendola restituire al pubblico in una visione diversa, dicendo lei stessa di mettere in scena UN Nabucco, non IL Nabucco. Ed è così che veniamo immersi in un contesto attualizzato, rimuovendo e reinterpretando molti dei simbolismi che la tradizione vorrebbe attribuita all’opera, nella sua verità storica. La scena è dominata da due grossi specchi che riflettono il pubblico, il palco e la buca d’orchestra: specchi che puoi si muovono, si sollevano o spariscono per lasciare spazio alla fondo stesso del teatro, ma venendo al contempo sfruttati come maxischermo. Maxischermo che permette la proiezione delle inquadrature dei due cameramen che accompagnano i protagonisti lungo l’evolversi delle vicende, proprio per ridare quella scena di visione diverse, di inquadratura differente. A ciò, si somma il ricco ed intelligente uso di giochi di luce e di proiezioni, l’acqua che nei primi due atti è fortemente presente, così come il grande mantello, ripreso a più chiamate ed in vari contesti, simbolo del potere (particolarmente efficace e d’effetto il momento in cui Abigaille se ne fa carico, a simboleggiare la presa del potere che ella brama a danno di Nabucco). Insomma, uno spettacolo che ha sia la grandezza visiva e di grande impatto, sia la ricerca di una riflessione e l’intenzione di voler portare lo spettatore a meditare, riflettere, vivere il dramma stesso. Accanto a lei, un team ben assortito che vede il lavoro di Thomas Walgrave e Marcelo Lipiani nel curare la scenografia, i costumi di An D’Huys, le luci di Thomas Walgrave, i video di Batman Zavarese.

Accanto a loro, nello sviluppo degli altri aspetti tecnici, ci sono il direttore della fotografia e camera Paulo Camacho, lo sviluppo dei sistemi video di Júlio Parente e la cura del sonoro di Pedro Vituri.

La visione registica va però ad influenzare anche alcune dinamiche musicali, tagliando alcuni passaggi corali e volendo dare un finale aperto di questo Nabucco, facendo bissare al Coro il celebre Va pensiero a cappella, dopo una composizione contemporanea del direttore d’orchestra Antonino Fogliani, che fa uso di dissonanze e tecniche strumentali moderne, a seguito del tragico Su me morente, esanime intonato da Abigaille in mezzo alla platea.

Una scelta che sicuramente scuote, smuove gli animi, crea pensieri. E Fogliani sposa appieno questa visione così impattante, così “cinematografica” che è al contempo intima, riflessiva, donando una lettura musicale che non dà tregua, non lascia il tempo di respirare, ma è uno scorrere costante del tempo, della musica.

Sin dalla Sinfonia iniziale capiamo di essere immersi nella piena italianità melodrammatica, dove la direzione orchestrale e la mano di Fogliani fanno ancora sentire gli echi rossiniani, l’impeto delle dinamiche orchestrali, con un’esaltazione ammirabile di tutte la parti, che sanno tenere i tempi brillanti, laddove necessario, ma che sanno poi smorzarsi, attenuarsi, addolcirsi, permettendo all’essenza umana di unirsi in un tutt’uno, lasciando spesso col fiato sospeso.

Intesa perfetta tra buca e palcoscenico, non un momento di dubbio o di cedimento, poiché il direttore conosce le voci, sa tenere il passo e accompagnare sempre, facendo respirare cantanti, coro, orchestra. Orchestra della Suisse Romande che risponde perfettamente, adattandosi a ciò che la direzione chiede, dando sempre un suono pulito, elegante, brillante, senza mai strafare o andare a coprire i cantanti, per quanto spesso le dinamiche e i tempi musicali possano far correre tale rischio.

Altrettanto apprezzata è la prova del Coro, che sin dall’inizio ha frequentazione attiva sia col palco che con la sala, vedendo spesso il coinvolgimento tra il pubblico di coristi e coriste, dando ancora una volta una visione differente (e anche più vicina, diremmo noi): il colore corale è bello, corposo, in perfetto equilibrio tra tutte le voci.

Protagonista delle vicende è Nabucco, qui interpretato, al suo debutto nel ruolo, dal baritono Nicola Alaimo, conosciuto ed apprezzato artista che, avendo intelligenza e capacità di giudizio nell’uso della voce, ha saputo percorrere un lungo percorso di crescita artistica, arrivando in punta di piedi all’affrontare un ruolo così tanto temuto e ricco di paragoni. Alaimo è artista completo, avendo piena voce di baritono ricca di colori, di sfumature, di inflessioni che permettono a Nabucco di essere guerriero, di essere Re, di essere padre ma, soprattutto, di essere uomo: nulla nell’interpretazione è lasciato al caso, dagli sguardi ai movimenti facciali, senza tralasciare la dominante presenza scenica. La declamazione e l’uso sapiente della parola cantata fanno sì che non una singola nota venga persa lungo la via, così come invece il fraseggio e la bellezza di accenti fanno perdere il conto dei momenti di grande espressione musicale: dall’entrata in scena ai momenti d’assieme, passando per l’elettrizzante e infuocato duetto con Abigaille, sino alla grande scena Dio di Giuda.. Cadran, cadranno i perfidi. Plausi, plausi e ancora plausi ad un sì completo e ammirabile artista.

In suo diretto confronto-scontro ed altrettanto apprezzata interprete è Saioa Hernandez, nei panni della temuta e sanguinaria Abigaille, che non risparmia voce e carattere nel volersi imporre sulla scena. Il soprano, in continua ascesa nel panorama lirico e con una costante crescita artistica, asseconda l’evolversi della sua voce che l’ha vista affrontare ruoli di belcanto, di agilità, per man mano crescere e avvicinarsi a ruoli più melodrammatici e di forza: evoluzione essenziale che le permette di gestire una voce strabordante di armonici, tutta proiettata e sempre ben sostenuta, con un’attenzione nel porgere e nel dominare tutta la gamma di suoni dai gravi più profondi sino agli acuti più insidiosi. È mirabile come anche nei momenti più intimi e drammatici (commuove il suo Su me morente, esanime cantato in mezzo al pubblico) la voce venga piegata e dosata secondo le dinamiche della partitura, in contrapposizione ai passaggi più concitati ed impetuosi, dove l’artista è donna conscia del potere che vuole ottenere e che raggiunge, seppur per breve periodo.

Fra i due non fatica ad inserirsi la figura di Zaccaria, qui interpretato dal basso Riccardo Zanellato, altro assiduo frequentatore del repertorio verdiano che con eleganza e nobiltà d’intenti dà vita ad un personaggio che è guida spirituale e gran pontefice del popolo ebraico. La voce è saggiamente dosata nel porgere, avendo bel colore di basso con un’ottima tenuta e buon fraseggio lungo tutta l’esecuzione, mai mancando di intonazione e con un legato attento, senza voler strafare sia nella cabaletta che nelle salite in acuto, spesso insidiose per i bassi, ma non in questo caso.

Il giovane, capellone e baldanzoso Davide Giusti è un travolgente Ismaele, innamorato della sua amata Fenena e per la quale tenta tutto il possibile: voce ricca, espressiva e di squillante piglio tenorile, sa imporsi nei momenti singoli e d’insieme, ricordandoci la bellezza della voce di tenore “all’italiana”. Anello debole del cast è la Fenena di Ena Pongrac, in forza al teatro ginevrino in alcune opere lungo la stagione attuale e prossima, che rende con scenica credibilità e con gioviale innocenza nell’affrontare la figura della dolente figlia di Nabucco: soffre però di una voce carente di intonazione e con sfogo non completo, facendo così poco apprezzare quello che invece sarebbe un interessante timbro vocale. A completamento del cast, sempre in forza nella compagnia di artisti del teatro, troviamo la precisa, svettante e aggraziata Anna di Giulia Bolcato (che acuti nel Finale quarto!), il puntuale e squillante Abdallo di Omar Mancini, che si distingue nei brevi interventi per lui previsti, e il Gran Sacerdote di William Meinert che dà prova di avere sì voce, ed anche di bel colore, ma ancora da rifinire per una corretta emissione.

Teatro tutto esaurito, con una standing ovation finale che, oltre a far venire i brividi per il godimento della stessa, porta alla riflessione spesso condivisa ma mai troppo detta: il teatro è vivo e vuole vivere. Osando, provando, facendo sì che non si vada a teatro per “passatempo”, ma per poter nutrire l’anima.

 

El ‘Nabucco’ experimental de Christiane Jatahy

Barbara Röder – Scherzo.es - 28 juin 2023

source: https://scherzo.es/ginebra-el-nabucco-experimental-de-christiane-jatahy/

 

Hace calor en Ginebra durante la representación de Nabucco, la ópera que convirtió de la noche a la mañana a Giuseppe Verdi en un héroe nacional. Su coro de prisioneros, el celebérrimo ‘Va pensiero’, devino desde entonces en un icono entre las canciones que claman por la libertad, una suerte de plegaria de creencia y esperanza en un mundo mejor.

El director artístico de Grand Théâtre de Ginebra, Avil Cahn, invitó a la actriz y directora brasileña Christiane Jatahy a presentar Nabucco de una forma novedosa y actualizada para cerrar una temporada cuyo tema central ha girado en torno al tema de la emigración (Mondes en migration). Jatahy, que en 2022 recibió el León de Oro de la Bienal de Venecia por sus trabajos teatrales y cinematográficos, se ha forjado un nombre gracias a producciones ambientadas en el presente y centradas en la vida y el sufrimiento de las minorías, montajes que respiran siempre el aire de una explosiva actualidad. De ese modo, los pueblos expulsados de su patria y que buscan un hogar en un país extranjero se convierten en el centro de las consideraciones escénicas de Jatahy. Verdi, por su parte, expone los avatares de diversas individualidades surgidas del propio pueblo y en las que nos reconocemos.

En la abarrotada sala de la ópera ginebrina el público se reconoce en el enorme espejo con eje basculante que domina el escenario. También la orquesta y su director, Antonino Fogliani, quedan reflejados en un espacio escénico consecuentemente ampliado. Las coristas femeninas se sitúan dispersadas entre el público, mientras que los hombres ocupan las zonas laterales. El concepto espacial de Thomas Walgrave y Marcelo Lipiani hace uso de una gran cantidad de focos brillantes, así como de una balsa cuadrada rodeada de agua, donde se sitúa el manto marrón de dominación que se pone Abigaille, la supuesta hija de Nabucco. Durante el ‘Va pensiero’, los emigrantes (papeles mudos) se despegan del coro situado en la rampa y huyen en todas direcciones, filmados por cámaras que están siempre alerta, como si estuviéramos en un episodio de ‘Gran Hermano’. Sin embargo, el momento de locura de Nabucco y el colapso del templo dejan poca impresión; una techumbre que se desploma, eso es todo.

Jatahy nos ofrece un verdadero combinado de invenciones visuales de todo tipo. Resulta significativo que la Babilonia bíblica se equipare al Irak actual. En la intrincada historia pergeñada por Temistocle Solera, el conquistador bíblico de Jerusalén y rey pagano de los babilonios enloquece por la fama y la blasfemia, para luego redimirse y convertirse a la fe de los israelitas. Frente a él tiene a sus dos hijas, una supuesta, la cruel y rencorosa Abigaille, la otra auténtica, Fenena; ambas se disputan el amor del israelita Ismael. Está por último el personaje del sumo sacerdote de los hebreos, Zaccaria, a quien la directora de escena presenta como un manipulador. Riccardo Zanellato cantó este importante personaje, algo turbio en la lectura de Jatahy, con claridad, precisión y sobriedad. Vestida con pantalones masculinos, Saioa Hernández encarnó con credibilidad y convicción a una Abigaille convertida en una moderna ejecutiva empresarial, con voz que sonaba algo enjuta y metálica en el registro agudo, aunque dotada de una rabiosa profundidad, y que supo describir con gran habilidad el juego homicida. Nicola Alaimo ama el papel de Nabucco, que sin embargo podría interpretar de manera aún más concisa y con mayor potencia vocal. Fenena, la hermana de Abigaille, ataviada con un burka blanco, estuvo encarnada por la mezzo Ena Pongrac con timbre claro, aunque con demasiada timidez interpretativa. El tenor Davide Giusti interpretó por su parte a Ismael, con voz flexible e imponente presencia. Completaron el solvente reparto la soprano Giulia Bolcato (Anna) el tenor Omar Mancini (Abdallo) y y el bajo William Meinert (Gran Sacerdote).

Ya desde la obertura-popurrí, que reúne los temas más importantes de la ópera, el director Antonino Fogliani supo extraer de la orquesta una italianità puramente verdiana. El final de la ópera se cierra de una forma inusual, con un breve fragmento de sonidos astrales compuesto por el propio Fogliani. El público celebró con entusiasmo un experimento coronado con éxito; la ilustre extravagancia del Nabucco de Jatahy es única en su género. Sin embargo, la indiscutible vencedora de la noche fue, una vez más, la música de Verdi.

« Nabucco » en immersion chorale

Marie-Aude Roux – Le Monde – 20 juin 2023

 

La Brésilienne Christiane Jatahy réalise avec brio sa première mise en scène lyrique avec le chef-d’œuvre de Verdi

« La première fois que J'ai fait un opéra, quand l'orchestre a commencé à jouer, j'ai pleuré. (…) La musique arrive dans un endroit de nous qui déborde. Et ça, c'est la force de l’opéra », confie Christiane Jatahy, qui réalise sa première mise en scène lyrique européenne au Grand Théâtre de Genève avec le « Nabucco » de Verdi, couronnant ainsi la thématique « Mondes en migration » déployée par la saison genevoise. Après son « Fidelio », de Beethoven, monté en 2016 au Théâtre municipal de Rio de Janeiro, un deuxième opéra à teneur explicitement politique, qui voit le terrible affrontement entre le roi de Babylone, Nabuchodonosor II, et le peuple de Juda emmené par le grand prêtre Zaccaria, gardien du temple de Salomon.

Grand miroir incliné en fond de scène reflétant la salle (et le public), au centre, un écran permettant la projection d'images vidéo filmées pour certaines en direct par des cameramen sur le plateau : la Brésilienne imagine le dispositif sophistiqué d'un spectacle en totale immersion. Une mise en espace spectaculaire qui rassemble scène et salle à la croisée des mondes réel et fictionnel, du théâtre et du cinéma, de l'intime et du sociétal. Les personnages du drame perdent en substance ce que le collectif absorbe. A l'instar d'images fortes, telle la destruction du temple de Salomon : une piscine dans laquelle se battent les protagonistes, où les gerbes d'eau démultipliées se transforment en un déluge de pluie lumineuse tombant à l'intérieur du Grand Théâtre, tandis qu'une bande sonore diffuse des bruits de trombes d'eau. Costumes hautement signifiants — le défilé de femmes assyriennes en burqas robes de mariées, symbole d'un étouffant pouvoir patriarcal —, lumières dorées crépusculaires ou blancs faisceaux verticaux (la folie et la solitude de Nabucco) accompagnent le travail de la lauréate du Lion d'or de la Biennale de Venise 2022. Opprimés, déplacés, exilés, décimés sont captés dans leur vérité individuelle. Ainsi ces « migrants » hébreux dont le sommeil est caressé d'images en gros plan (zoom sur la main abandonnée d'une femme aux ongles peints), ou ceux dont le départ ostensible les désolidarise du groupe, comme si, au désordre général, se superposaient des chaos individuels encore plus violents.

La prise du rôle-titre par Nicola Alaimo était espérée. Le grand baryton italien confère au roi de Babylone, déchiré entre une souveraineté absolue exercée à l'égal de Dieu et son amour paternel trahi (Fenena s'est convertie au judaïsme, Abigaille lui ôtera le pouvoir), une profonde humanité et une intelligence dramatique remarquable. Face à lui, le grand prêtre Zaccaria de Riccardo Zanellato compense une vocalité amoindrie aux extrêmes de la tessiture par sa noblesse de ton et son élégance. La jeunesse impulsive de l'Ismaele de Davide Giusti n'hésite pas à sauver au péril de sa vie celle qu'il aime, Fenena, la fille de Nabucco prisonnière des Hébreux, qu'incarne la mezzo croate Ena Pongrac — belle présence malgré un dernier air aux aigus trop tendus. On attendait aussi Saioa Hernandez dans le rôle meurtrier d'Abigaille. Aigus filés lumineux, graves profonds sans surcharge dramatique, agilité sur tout l'ambitus vocal (vertigineux), la soprano espagnole se révélera aussi impressionnante qu'émouvante.

Ubiquité d'un chœur dispersé
Verdi a fait du peuple des Hébreux, élu et persécuté, le personnage principal de Nabucco. Un élément que la metteuse en scène carioca traduit par l'ubiquité d'un chœur dispersé aussi bien sur le plateau, en coulisse, que de chaque côté du parterre, aux balcons, ainsi qu'au milieu des premiers rangs du public, rassemblant artistes et spectateurs en un seul corps.

Il faut, pour réussir cette véritable performance, toute la maestria du Chœur du Grand Théâtre de Genève, excellemment préparé par Alan Woodbridge. On se souviendra longtemps du Chœur des esclaves de l'acte III (le fameux Va, pensiero, sull'ali dorate) chanté d'une seule voix, avec une justesse d'intonation, une grâce et une flexibilité prosodique exemplaires, et ce dernier accord suspendu, tenu sans faillir au-delà du souffle, au-delà du temps. A la tête du magnifique Orchestre de la Suisse romande, Antonino Fogliani manie une baguette raffinée et puissante, dynamique et colorée, que ce soit dans les passages guerriers ou les intervalles plus sombres. La nostalgie sensuelle des six violoncelles qui soutiennent la Prière de Zaccaria à l'acte II est d'une beauté insoutenable. C'est également au chef d'orchestre, cette fois également compositeur, qu'incombe l'intermezzo symphonique rajouté à la fin de l'opéra, après l'habituel chœur a cappella Immenso Jehovah, que suit la cantilène éplorée d'une Abigaille touchée par le remords et la conversion au judaïsme (magnifique plainte compassionnelle du cor anglais). Pas une fin, plutôt une ouverture sur le monde contemporain.

Les brefs accords conclusifs de Verdi ont laissé place à une sorte de pont intemporel (avec harmonies dissonantes et techniques instrumentales modernes), qui hèle le Chœur des esclaves jusqu'à nous. Moment sidérant d'émotion : salle rallumée, montant de part et d'autre du public qu'il encercle et contient, le Va, pensiero s'élevant à nouveau dans toute sa nudité vocale, jusqu'à la dernière note (cette fois encore, tenue jusqu'à l'extinction du souffle), dans un hymne de la perte et de l'espoir.

 

Le Nabucco de Christiane Jatahy prend aux tripes et parle au cœur…

Emmanuel Andrieu – ClassiqueNews.com – 24 juin 2023

source: https://www.classiquenews.com/critique-opera-geneve-grand-theatre-le-22-juin-20…

 

Pour clore sa saison intitulée “Mondes en migration”, le Grand-Théâtre de Genève (et son directeur Aviel Cahn) a fait appel à la metteuse en scène brésilienne Christiane Jatahy pour mettre en images “Nabucco” de Verdi. Artiste associée à pas moins de quatre théâtres prestigieux (le Théâtre de l’Odéon à Paris, le Piccolo Teatro de Milan, le Schauspielhaus de Zurich et le Arts Emerson Theater de Boston), elle a reçu l’an passé un Lion d’or à la Biennale de Venise pour l’ensemble de son travail, basé sur les “frontières” et les “questions raciales”, des thèmes qui ne pouvaient qu’entrer en résonance avec le chef d’oeuvre du maître de Bussetto, lequel met en scène tout un peuple réduit en esclavage et en quête de sa patrie où honorer son Dieu, Jéhovah.

 

Certes, tous les procédés dont elle use ici (certains diront abuse…) sont déjà connus des spectateurs assidus des salles lyriques, mais ils n’en demeurent pas moins diablement efficaces, concourant à un spectacle qui prend aux tripes et parle au cœur. Alors oui, les miroirs qui montrent la scène en contrebas et qui s’inclinent parfois pour renvoyer sa propre image à la salle, ce parterre d’eau dans lequel les personnages trébuchent, pataugent ou s’y battent, ces images tournées “en live” par deux cameramen et projetées sur écran géant, ces choristes disséminés dans la salle (certains au milieu même des spectateurs du parterre…), les lumières qui se rallument pour le final (et mieux interpeller l’audience…), nous en avons déjà fait l’expérience (pas tous en même temps cependant…), mais si c’est pour mieux débarrasser tous les “oripeaux” du drame antique (avec son fatras habituel de décors et costumes somptueux), si c’est pour mieux mettre en avant ce qui en est la “substantifique moelle”, et offrir au regard toute la résonance de cette histoire avec notre monde chaotique et souffrant d’aujourd’hui, et bien on peut dire que le pari est réussi.

D’autres pourront aussi trouver incongrues les notes de musique contemporaine (alla Arvo Pärt) écrites par le chef Antonino Fogliani qui font suite au finale original de Verdi qui s’achève sur la mort de l’héroïne (qui au passage ne meurt pas ici mais rejoint le peuple qu’elle a préalablement martyrisé…), suivies par une séquence d’une rare force émotionnelle où les 60 membres du Choeur du Grand-Théâtre ont à nouveau investi (les mesures ajoutées servant à ça…) les quatre niveaux de la salle pour entonner, cette fois “a capella”, le sublime “Va pensiero”. A peine finit-il l’air (dans un quasi murmure) que toute la salle se lève comme un seul homme pour offrir illico une standing ovations aux artistes – une expérience inédite pour nous qui fréquentons ce théâtre depuis 25 ans maintenant : c’est dire l’émotion et même l’empathie ressenties par le public genevois à l’issue de ce spectacle d’un rare impact émotionnel et dramatique !

Dans le rôle-titre, en alternance avec Nicola Alaimo, le baryton russe Roman Burdenko – bien qu’à la voix moins vaillante et puissante que son collègue italien -, parvient en revanche à conférer une subtilité inespérée au roi grandiose et désespéré ; avec une sensibilité à fleur de peau (que l’on retrouvera au moment des saluts, où il se montre au bord des larmes, envahi par l’émotion que fait naître en lui la magnifique ovation que le public lui adresse…), il fait de toute la quatrième partie un grand moment d’émotion, avec un confondant métier d’acteur.

En termes de jeu scénique, Saioa Hernandez n’a rien à lui envier, une flamme intérieure ne la quittant pas la soirée durant, de même qu’elle offre un instrument riche, capable de soutenir la tessiture meurtrière d’Abigaille. De fait, la soprano espagnole possède – et plutôt deux fois qu’une ! – l’engagement farouche et l’insolence dans l’émission que requiert cette femme assoiffée de pouvoir, prête à tout pour atteindre son but. Et sa rage et sa véhémence font d’autant plus impression ici, qu’elle maîtrise également la cantilène “Anch’io dischiuso” avec un rare sens et maîtrise du son émis piano.

De son côté, la superbe mezzo croate Ena Pongrac apporte à Fenena une séduction et un raffinement rare dans l’émotion, délivrant un superbe “O splendordegli astri, addio”, tandis que le ténor italien Davide Giusti campe un Ismaele de beau métal et d’un style parfait. Le rôle écrasant de Zaccaria était tenu par la basse italienne Riccardo Zanellato qui, après des débuts incertains avec une ligne de chant quelque peu fluctuante, se rattrape par la suite, et l’on ne peut nier le rayonnement qu’il confère au Grand Prêtre juif. Les autres rôles, le Grand Prêtre de l’américain William Meinert et l’Abdallo du ténor italien Omar Mancini, n’appellent que des éloges, et l’on réservera une mention toute particulière pour le petit rôle d’Anna, dévolu à la très attachante soprano Giulia Bolcato, qui possède une voix superbement timbrée et naturellement puissante, capable de planer au dessus des ensembles.

Dans la fosse et du côté des chœurs, le bonheur est également entier. Grand habitué des lieux, le chef italien Antonino Fogliani ne se contente pas de battre la mesure et d’accuser le profil martial de la partition. Il obtient de son orchestre des couleurs, une dynamique, une souplesse qui donnent un sens au discours verdien. De son côté, le chœur s’avère aussi chaleureux que nuancé et par deux fois, donc, le sublime « Va pensiero » est abordé pianissimo, pour ensuite s’envoler et finir à sur une note “mourante”.

Après le fracassant succès de “Lady Macbeth de Mzenk” en avril dernier in loco, le Grand-Théâtre de Genève consolide sa place parmi les théâtres lyriques européens les plus brillants et innovants de notre temps (aux côtés du Teatro Real de Madrid et de l’Oper Frankfurt… et bien loin devant l’Opéra de Paris ou le Covent Garden de Londres…) !

L’esbroufe de Nabucco

Paul-André Demierre – Crescendo-magazine.be – 20 juin 2023

source: https://www.crescendo-magazine.be/a-geneve-lesbroufe-de-nabucco/

 

Spectateur, toi qui viens de voir Nabucco au Grand-Théâtre de Genève, qu’as-tu compris ? Mets-toi dans l’idée qu’un livret d’opéra écrit par l’obscur Solera vers 1840 n’a aucun intérêt, même s’il s’inspire de la Bible. C’est ce que semble nous dire Christiane Jatahy, metteur (metteuse ?) en scène brésilienne, flanquée de son scénographe Thomas Walgrave. Et d’ajouter : Perçois l’effet saisissant que produit le gigantesque miroir incliné surplombant le plateau et reflétant la salle. Du reste, pourquoi ne pas infiltrer dans les rangs du public plusieurs de ces malheureux choristes vêtus par An D’Huys des invendus d’un prêt-à-porter, peu importe qu’ils représentent un hébreu désespéré ou un soudard assyrien ? Et le chef, Antonino Fogliani, aura beau s’agiter en tous sens, il ne pourra éviter les décalages entre la fosse où œuvre l’Orchestre de la Suisse romande et la scène envahie par le Chœur du Grand-Théâtre de Genève, considérablement renforcé  (comme toujours remarquablement préparé par Alan Woodbridge). Il est vrai que dès la Sinfonia d’ouverture, le maestro recherche à tout prix les contrastes dynamiques, quitte à alanguir un andantino cantabile et à bousculer les passages rapides au point de rendre inchantable la stretta du premier Final (« Questo popol maledetto »).

Revenons au plateau où paraît Zaccaria, le grand-prêtre juif, complet noir croisé, caméra sur l’épaule, filmant ses ouailles,  avant de céder la place à deux techniciens qui poursuivent le reportage. Serait-on en train de filmer un nouvel épisode de Koh-Lanta ? En tout cas, Fenena, fille de Nabuchodonosor, n’ayant sur elle qu’une combinaison délavée, est arrachée des bras d’Ismaele, son punk de soupirant, puis emportée à bout de bras par une cohorte d’Israélites enragés. Surgit sa pseudo- demi-sœur, Abigaille, chemisier noir sur pantalon ocre, qui tente de s’emparer d’une cape démesurée, emblème du pouvoir, tout en annonçant l’entrée de Nabucco/Nabuchodonosor, roi de Babylone. Gavé des biens de ce monde, vu son embonpoint, le souverain arbore lui aussi un complet-veston bleu assez quelconque. Immédiatement mis en présence de la malheureuse Fenena que l’on a emprisonnée dans une burka plastifiée, il laisse éclater sa fureur en éclaboussant l’assistance avec l’eau d’une pataugeoire où l’on vient de laver la fameuse cape dorée. Notons toutefois que, dans le tableau suivant, ce tissu démesuré constituera la seule belle image à retenir lorsque, sous l’effet miroir, Abigaille s’en enveloppera avec avidité. Mais que ce faux-plafond sera ridicule, alors qu’il devrait écraser le monarque sombrant dans la folie ! Néanmoins, dans une perspective en contre-plongée, le célèbre « Va, pensiero, sull’ali dorate » tient du moment de grâce où le peuple hébreu semble pétrifié dans la nostalgie d’une « patria sì bella e perduta ». Cependant qui aurait pu imaginer que ce chœur célèbre pût reparaître au dénouement, en réponse à une transition moderniste incongrue concoctée par le maestro qui, suant sang et eau, se tourne vers la salle en imaginant faire chanter le public… Il est vrai que la scène finale a de quoi surprendre, puisqu’Abigaille ne succombe pas à un poison mortel, mais, bien portante, disparaît dans la foule… Comprenne qui pourra…

Par rapport à ce fatras, que dire de la distribution vocale ? Elle est incontestablement dominée par l’Abigaille de Saioa Hernandez, voix de soprano lirico spinto dont on parle beaucoup aujourd’hui. Pour avoir entendu à la Scala sa Tosca qui m’avait laissé sur ma faim par son manque d’empathie pour le lyrisme à fleur de peau de Puccini, ce personnage verdien convainc par le grain corsé qu’elle affiche dès le terzetto « Prode guerrier ! »  en une tessiture large qui s’étend du si 2 au contre-ut. Sa cavatina de l’acte II, « Anch’io dischiuso un giorno » développe un cantabile legato qui deviendra émouvant dans le duetto du troisième acte, « Donna, chi sei ? ». Mais quel dommage qu’elle soit contrainte de savonner la coloratura dans les redoutables traits de fureur ! Face à elle, Nicola Alaimo incarne un Nabucco qui se donne de l’assurance par des accents péremptoires qui s’effriteront dans le Final de l’Acte II où ses tâtonnements peinent à suggérer la démence d’un potentat qui a provoqué la colère divine. Cependant, dans la seconde partie, sa scène en duetto avec Abigaille lui prêtera des inflexions bouleversantes qui se corseront d’héroïsme pour le tableau final. Même s’il ne possède pas les graves sonores du rôle, le Zaccaria de Riccardo Zanellato impressionne par la dimension statuaire qu’il confère à ce grand-prêtre fanatique. Malgré son look de punk, Davide Giusti campe un Ismaele pathétique par un aigu claironnant lui permettant de défendre celle qu’il aime, cette Fenena qui, pour une fois, ‘existe’ grâce à Erna Pongrac dont les moyens consistants lui concèdent un legato expressif dans la preghiera « Oh dischiuso è il firmamento ». Les seconds plans, Anna, Abdallo, le Grand-Prêtre de Baal, sont bien servis par Giulia Bolcato, Omar Mancini et William Meinert.

Lorsque s’achève le spectacle par la reprise du « Va, pensiero » au sein d’un public muet comme une carpe, les lumières s’éteignent. Et c’est une standing ovation qui accueille l’ensemble du plateau. Et si elle s’adresse aussi à la partition du jeune Verdi, que grâce lui en soit rendue…

Un drame de notre temps

David Verdier – AltaMusica.com – 19 juin 2023

source: http://www.altamusica.com/index.php

 

La saison 2022-2023 du Grand Théâtre de Genève se conclut avec la somptueuse mise en scène de Nabucco signée Christiane Jatahy. Cette lecture chorale et engagée est magnifiée par un plateau dominé par Nicola Alaimo et Saioa Hernández, tandis qu'Antonino Fogliani multiplie les miracles verdiens à la tête de l'Orchestre de Suisse Romande.

C'est une salle comble et enthousiaste qui accueille ce Nabucco au Grand Théâtre de Genève. La mise en scène de Christiane Jatahy offre du drame de Verdi une lecture qui place le spectateur au centre des intérêts, sollicitant son attention en augmentant l'espace scénique pour l'englober au cœur du spectacle. Ce sont tout d'abord ces deux immenses miroirs posés de biais sur scène, dans lesquels le public qui prend place se reflète. Cette image sert de fond de scène d'une action qu'on observe, aussi bien qu'on se regarde observer.

Dans un second temps, il y a ces deux cameramen qui arpentent le plateau et prélèvent en direct des plans sur tel ou tel personnage – images qu'on retrouve en projection au-dessus de la scène avec des effets de montages cinématographiques qui accentuent la tension d'un bout à l'autre de la soirée. En dernier lieu, Christiane Jatahy fait intervenir physiquement les choristes au contact du public. Il y a tout d'abord le chœur des Vierges qui sont assises au parterre, parmi le public et qui soudain se lèvent qui chanter leur déploration. C'est ensuite l'ensemble du chœur qui, après l'avoir chanté sur scène, rangé sur le proscenium, reprend le Va pensiero depuis la salle, réparti autour du parterre et dans les étages.

Une série d'images en différé et façon hologrammes sont projetées au centre de la scène, multipliant les protagonistes comme pour en accentuer l'impact sur le drame. On notera d'autres systèmes d'illustrations, comme ce bassin d'eau que les personnages traversent durant toute la première partie ou ce plafond de néons qui plane au-dessus de la scène – images très fortes qui font écho à l'affrontement des Hébreux et des Babyloniens sous le regard de Dieu. Et puis, le jeu des costumes qui introduit un réseau subtil et efficace d'idées et de références qui épousent l'action : Nabucco avec un moderne costume bleu cobalt en guise de couronne, le lourd et long manteau d'Abigaille, les robes-burkas en dentelles blanches de Balenciaga – image de la soumission sociale et religieuse orientale et occidentale…

Le plateau est à la hauteur de la soirée, à commencer par la première Abigaille de Saioa Hernandez, affrontant avec un brio et une netteté d'intonation le redoutable Anch'io dischiuso un giorno avec un art consommé de la ligne et du contrôle de la projection. Au même niveau se place la prise de rôle Nicola Alaimo en Nabucco, gratifiant son O prodi miei, seguitemi d'un engagement souverain dans le phrasé et d'une endurance à toute épreuve. Ismaele va comme un gant au jeune Davide Giusti qui offre une belle présence d'un bout à l'autre de la soirée. Riccardo Zanellato est parfois à la peine mais son Zaccaria gagne progressivement en intensité et en relief.

L'Orchestre de Suisse Romande est soulevé et emporté par la superbe direction d'Antonino Fogliani. Le chef italien donne au moindre détail un sens et une couleur qui forment un impressionnant soutien de tous les instants. Jamais simplement décorative mais toujours pulsée et riche d'inventions, la partition avance, d’une tension implacable. Du très grand art.

The Procession of the Burqa Brides

Ossama el Naggar - ConcertoNet.com – 16 juin 2023

source: http://www.concertonet.com/scripts/review.php?ID_review=15706

 

This production of Nabucco was a missed opportunity for le Grand Théatre de Genève. It assembled an ideal cast of singers, but unfortunately it also chose the Brazilian “rising star” of the theatre Christiane Jatahy as stage director. Winner of the 2022 Golden Lion at the Venice Biennale, Jatahy has some interesting ideas, but her trademark of mixing media, while effective in a play, is distracting in opera, where music is the primary aspect of the art form.

Given Jatahy’s credentials, I was initially intrigued by what she would create using Nabucco, an opera with a modest and often implausible story, as her point of departure. Alas, it’s clear this stage director–whose present production is only her second foray into opera–knows woefully little about it and, more seriously, doesn’t even believe in the medium.

A pale imitation of the work of French director Ariane Mnouchkine, Jatahy attempts to capture the public’s attention with “actor‑public” interaction by having the chorus abruptly enter the aisles among the seated public. This tired trick was once a novel idea, but it’s long become tedious. Much in the vein of Jean Cocteau, whose La Belle et la Bête (1946) and Orphée (1950) were innovative and rightly praised in their time, notable for their striking surrealism, Jarahy highly values imagery above all else. Seventy‑five years later, Cocteau’s once intrepid style remains iconic, but it is no longer original. More seriously, Jatahy’s dramatic devices here are distracting, working against the cohesion of the action.

The first such dominant image was successful: Abigaille snatching the carpeting material of an unseen Solomon’s Temple and making it into a regal dress, the idea being grabbing power by destruction and expropriation. Even more striking was the opening scene of Act II where Abigaille again takes the carpeting material and makes it into a huge dress covering the entire stage. This is reflected in a mirror above the stage: a repetition of the symbolism of her hunger for power. That effective image was so overwhelming that one could not concentrate on what was being sung by the soprano.

Alas, it’s a clear indication that opera is alien to Jatahy. And she’s clearly forgotten that the aria is a song during which a character expresses their state of mind. It’s therefore not an appropriate moment to create action scenes, simply for the sake of it. One dreads the idea of one day experiencing Jatahy’s take on a more cerebral opera, such as Tristan und Isolde or Pelléas et Mélisande.

The most offensive example of Jatahy’s grand imagery was the “burqa bride.” Based on fashion designer Balenciaga’s take on the veiled traditional Yemeni wedding gown, Fenena, Nabucco’s younger daughter and recent convert to Judaism, is forced to wear such a dress when the priest king of the Jews attempts to use the Assyrian princess as a bargaining chip with Nabucco. It’s hard to see a bridal gown’s place in such a scene, except perhaps to express the prison‑state condition that marriage can be, a somewhat absurd idea in an opera where women are far from docile subjugated creatures, be it the power hungry warrior princess Abigaille or the determined convert Fenena who opts to join the oppressed Jews rather than enjoy her birthright station in life. There is no need to comment on the Orientalism of the idea of attributing a Yemeni bridal gown to an opera that takes place in Israel-Palestine and in Iraq. The discrepancy is similar to having a flamenco dress and castanets in a Swiss or German setting. The Balenciaga-inspired dress was so beautiful that it became the opera’s leitmotif ad nauseam–reappearing in a sixfold procession thrice and a fivefold procession once during dramatic moments of the opera, utterly distracting from the plot.

The three lead singers were as sublime as the stage direction was disastrous. First and foremost was Spanish dramatic soprano Saioa Hernández as Abigaille. It is hard to imagine any other present‑day singer doing justice to this extremely demanding role. It is alleged that the role of Abigaille took its toll on Verdi’s lifelong companion Giuseppina Strepponi’s voice so much so that it prematurely ended her career. The legendary Greek-Argentinian Elena Suliotis is a more recent victim of this role. Astounding the opera world with her Abigaille in the mid‑sixties, her career was basically over within five years. Let’s hope such a fate will not befall the magnificent Saioa Hernández, and that she will be wiser in her choices. In Act II’s “Anch’io dischiuso un giorno,” not only did Hernández withstand the technical challenges of one of Verdi’s most demanding arias, she also managed to convey the different emotions of the character–ambition, longing for love, being rejected, as well as learning she is an adopted daughter of slaves and not Nabucco’s actual daughter. Her Act III scene with Nabucco was almost terrifying as Hernández crushes her adoptive father into submission and forces him to sign a decree to massacre the Jews.

The brief but powerful final scene of the opera, Abigaille’s suicide, is rendered tepid by Jatahy’s idea of making her sing it offstage, in front of the first row in the orchestra. To add insult to injury, the conductor, who claims a love of early Verdi operas, added a new finale to the opera: a dissonant musical clin d’œil to Nabucco that sounded more like a homage to Luciano Berio than to Verdi, followed by an a capella reprise of the famous “Va pensiero” chorus. Let’s hope such innovations do not extend to La traviata ending in a reprise of the “Libiamo” chorus after Violetta’s death.

The hideous “modern” costumes, essential, one supposes, for shock value, didn’t add to the production except the obvious notion that power struggles are universal, common to all countries and epochs. Only a trip to the welfare office or a trip in time to a workers’ cooperative in Ceausescu’s Rumania can afford such a visual assault.

Nicola Alaimo was a powerful Nabucco. Endowed with a beautiful velvety voice, he was utterly moving in the passages where his vulnerability was on display, such as the powerless father unable to help his beloved daughter Fenena, or as a newly-weakened previously dominant figure. His “Dio di Giuda!” scene, where he converts to Judaism, was rendered less effective by the conductor accentuating rather than lessening the Umpapa beat much of early Verdi suffers from.

Riccardo Zanellato, one of today’s leading basses, was elegant and refined in his style. His basso cantante is too similar to Alaimo’s baritone to afford the needed contrast. In the smaller roles of Fenena and Ismaele, Ena Pongrac and Davide Giusti were quite a luxury. Both have beautiful voices and excelled in the Act I duet which eventually becomes a trio with Abigaille.

It is to be noted that Nabucco is an important opera in Verdi’s œuvre, not only for being his first big hit. At a time when bel canto was still the style of the day, it had the innovation of rendering the love story secondary, thus accentuating the dramatic side. This concept is repeated in two other Verdi-Solera collaborations: Giovanna d’Arco (1845) and Attila (1846). It was also new in the age of bel canto to have the chorus play such a prevalent role.

Despite its dreadfully misguided staging, this was, vocally, one of the most impressive Nabucco productions one could hope for. Hopefully, a recording of this production will be heard over the radio (but please–not the television!) for the sheer enjoyment of first‑rate Verdi singing.

Un Nabucco Full-immersion

Guy Cherqui — wanderersite.com - 16 juin 2023

source: https://wanderersite.com/opera/triomphale-fin-de-saison-au-grand-theatre-de-gen…

 

Rien de plus difficile que de monter Nabucco. Pour des raisons musicales et vocales, et pour des raisons scéniques. L’œuvre bénéficie d’une sorte de fausse popularité, fondée exclusivement sur le chœur Va pensiero sull’ali dorate de la troisième partie, et sur la légende qui l’accompagne à la fois dans son rôle rassembleur et identitaire dans la période du Risorgimento, et aujourd’hui exploité par certains politiques : les français se souviennent-ils que ce chœur accompagnait l’entrée de Jean-Marie Le Pen dans les meetings du Front National ?

Du reste de l’œuvre, on fait peu cas, ni de sa nature hybride, complexe au niveau dramaturgique, et des difficultés du chant notamment pour la protagoniste Abigaille, qu’aujourd’hui comme hier, peu de chanteuses ont pu affronter avec style.

Ainsi dans l’histoire des productions, c’est plus à la fête du carton-pâte qu’à celle de l’intelligence et du raffinement qu’on assiste le plus souvent.

La popularité du titre cache de toute manière un risque pour tout directeur d’opéra, et si la tradition désormais établie au Grand Théâtre de Genève de programmer en fin de saison un titre populaire du répertoire italien (par exemple Aida ou Turandot, avec des fortunes diverses) a conduit à conclure cette saison assez ardue par Nabucco, cela ne garantissait pas a priori un chemin parsemé de roses, même si le public était cette fois au rendez-vous. Musicalement sans failles avec un travail particulier du chœur ici exceptionnel et de l’orchestre dirigé par Antonino Fogliani, et avec un très solide plateau, la production est servie par une mise en scène spectaculaire et très contemporaine de Christiane Jatahy, qui a choisi d’associer étroitement le spectateur et la salle, devenue scène globale impliquée dans des images puissantes, non dépourvues de beauté ni d’intelligence, avec au bout de la soirée un des plus grands triomphes des dernières saisons.

 

Il y a une vraie difficulté à définir une ligne dramaturgique au Nabucco de Verdi composé de quatre tableaux, quatre parties et non pas quatre actes. Une division en actes signifierait une liaison organique entre chaque partie, avec une intrigue serrée, comme on peut le constater dans d’autres œuvres.

L’idée de la partie, c’est un peu comme ces fresques des églises qui racontent des épisodes des Évangiles en se limitant à un événement qui donne son sens au tableau. Une « bande dessinée » avant la lettre où chaque partie-tableau est suffisamment détaillée pour donner du sens, mais moins articulée moins tissée, moins tressée avec le reste. Il y a donc quatre parties, Jérusalem, L’impie, La prophétie, L’idole brisée.

La première partie évoque la destruction du Temple de Jérusalem par Nabuchodonosor, les trois autres se passent à Babylone, entre les hébreux prisonniers et exilés, et le palais, notamment les mythiques jardins suspendus.

C’est une histoire à plusieurs entrées, ce qui en augmente la complexité, ou si l’on préfère diminue la lisibilité.

    Première entrée : l’entrée politique. Dans une ville de Milan encore sous domination autrichienne (et six ans avant le soulèvement local des « quattro giornate » en 1848) voilà un opéra qui évoque le joug des envahisseurs et en quelque sorte, des colonisateurs, avec la place particulière du chœur Va pensiero… qui rêve de la patrie perdue, un topos verdien qu’on retrouve entre autres dans Aida, mais aussi dans le chœur Patria oppressa de Macbeth.

    Deuxième entrée : une entrée religieuse, l’affirmation des hébreux par rapport aux dieux babyloniens, autrement dit, monothéisme contre polythéisme, un aspect traité dans d’autres histoires d’opéra, comme Samson et Dalila, avec son corollaire, la supériorité du Dieu des hébreux sur les dieux de l’ennemi. Verdi s’est toujours méfié (à raison) de la religion et il n’est pas dit que Zaccaria soit le personnage positif face à Nabucco le négatif, on le verra. Cette entrée en revanche peut être lue de manière très contemporaine, les affirmations religieuses faisant partie du paysage d’un monde contemporain déstabilisé, et pas seulement par l’Islam qui devient un topos commode et pas forcément juste de « l’altérité », mais aussi de l’Évangélisme, plus subreptice et d’autant plus dangereux, comme on le voit aux États-Unis ou ailleurs qu’il émane de braves blancs bien sous tous rapports.

    Troisième entrée : conséquence de la précédente, un jeu politique entre Zaccaria, qui mène les hébreux et détient Fenena fille de Nabucco, et Nabucco ivre de pouvoir mais père inquiet, entre manipulation et chantage.

    Quatrième entrée : l’hybris (l’orgueil démesuré des hommes qui veulent égaler les Dieux) saisit Nabucco qui se prend pour Dieu (une norme « politique » des monarchies de l’antiquité), ici immédiatement frappé par le Ciel.

    Cinquième entrée : conséquence de ce qui précède, une révolution de palais, conduite par l’une des deux filles de Nabucco, Abigaille, l’autre, Fenena, étant otage des hébreux. Abigaille découvrant qu’elle est en réalité fille d’esclaves profite de la situation pour supplanter Fenena, la fille légitime mais empêchée, et prendre le pouvoir.

    Sixième entrée : la touche romantique qui doit colorer tout opéra, l’amour entre Fenena fille de Nabucco et Ismaele neveu de Zaccaria, les amours interdits qui viennent contrarier les luttes inexpiables entre familles, clans, nations, ou casser les codes sociaux dont le modèle est Roméo et Juliette : c’est Aida, c’est La forza del Destino, c’est Lucia di Lammermoor. Là encore un topos de l’opéra du XIXe.

On peut le constater, il y a de quoi être pris de vertige par ce livret où tout se mélange de manière pas vraiment claire notamment dans les deux premiers tableaux, et un peu plus dans les deux derniers.

En même temps, comme dans tout récit venu du religieux, il y a quelque chose de parabolique puisque tout conduit à la conversion ou à la soumission au vrai Dieu (cf Polyeucte de Corneille).

Si la question du pouvoir se pose aussi bien par le personnage de Zaccaria que celui de Nabucco, chacun cherchant à manipuler l’autre, et chacun responsable d’un groupe à mener, se pose aussi de manière plus accessoire, par les temps qui courent objet d’une lecture à laquelle on ne pensait pas forcément il y a quelques années, la question des personnages féminins, qui dans cet opéra prennent chacun leur destin en main, celui de se libérer : Fenena se convertit au judaïsme et gagne sa liberté face à son père, et Abigaille provoque un coup d’État, autre manière de conquérir sa liberté (en plus d’une identité conquise et non subie) face au même père.

Comme on le voit, il y a de quoi alimenter la lecture d’un metteur en scène. Mais l’autre côté du miroir (une expression adéquate quand on voit le travail genevois), il y a la dramaturgie, c’est-à-dire l’agencement de tous ces éléments entre eux, qui dans le livret de Temistocle Solera, n’est pas ce qu’il y a de plus clair ni de plus rigoureux.

Alors Christiane Jatahy sans renoncer à raconter l’histoire, en sort par le haut, cherche à l’épurer, en l’inscrivant dans une a‑temporalité débarrassée de toute référence historique dont les costumes contemporains (costumes de An D’Huys) habillant une population diverse et multicolore reflètent notre société.

La trame est bien présente, mais par des symboles ou des indices, des signes. Ce Nabucco c'est "L'Empire des signes", comme aurait dit Roland Barthes…

Le pouvoir, c’est la veste bleue de Nabucco, mais c’est aussi le rêve d’Abigaille qui se ceint d’une longue traine lourde, prise dans l’eau, difficile à manier,  presque un obstacle, une traine qui s’étale dans son premier long monologue telle ces robes étalées et semées de plis divers, comme on représente des anges ou Marie dans certaines églises baroques d’Italie, d’Espagne ou d’Amérique du Sud, et que le spectateur voit au miroir, du haut, comme une illusion baroque, comme si cette Abigaille priait une Vierge Marie bienveillante ( ?). On y lit aussi d’autres aspects plus inattendus. Une Abigaille devant l’écueil, l’obstacle et qui n’a pas encore pris le pouvoir, déjà empêchée, déjà prise au piège d’une charge trop lourde pour elle… une femme prise dans sa traîne, prisonnière de sa robe, un joli symbole.

Zaccaria quant à lui tout vêtu de noir mène ses foules et dirige tout, y compris en portant la caméra, comme s’il voulait rester également maître « de sa communication » dirait-on aujourd’hui. Il suffit de le voir manier la caméra pour comprendre qui il est et ce à quoi il veut arriver et surtout ce qu’il veut transmettre…

Le neveu Ismaele, à la fois dans le groupe et hors du groupe (tout le monde est un peu le traître de quelqu’un dans cet opéra), se présente discrètement comme marginal (coiffure, blouson de cuir…) bougeant d’un groupe à l’autre sans qu’on n’arrive à déterminer où il est, lui-même très mobile, plutôt agité, sorte d’image d’une jeunesse non encore stabilisée.

Fenena jeune femme à la robe simple, est bientôt revêtue d’une sorte de « Burka blanche », un symbole de soumission qui d’ailleurs est l’occasion de beaux mouvements de scène, cachée, prisonnière, otage.

Les femmes…

Une vision des femmes de Babylone qui pourrait faire penser à l’Islam d’Irak ou d’Iran aujourd’hui, mais qui rappelle aussi indirectement que dans le judaïsme, les femmes ne sont pas non plus mieux servies.  En bref, où qu’on se tourne, la condition des femmes reste une question irrésolue.

Dès qu’elle a le pouvoir, Abigaille revient en pantalon et ainsi libérée de sa lourde traine-obstacle, elle revêt aussi la veste bleue qui fut celle de Nabucco, tandis que Nabucco se retrouve dépouillé de son attribut de pouvoir, errant en tee-shirt noir.

Tous ces éléments sont des indices, qui nous disent quelque chose de l’action, du statut des personnages sans jamais insister et en instaurant une distance par rapport aux personnages « historiques », sans jamais s’éloigner de la trame.

Christiane Jatahy construit des scènes qui sont des tableaux aux outils très concrets, l’eau, la lumière, les miroirs et qui restituent au total une véritable abstraction presque esthétique : pour exprimer la révolte, la guerre, elle fait mouvoir les personnages dans l’eau, avec des effets vidéo impressionnants, donnant l’idée de violence par la simple projection cinématographique de cette eau qui fait de toute la salle un immense écran immersif.

Au moment où Nabucco est pris dans son délire d’orgueil et demande à être adoré, le plafond lumineux tombe sur le personnage, comme si « le ciel lui tombait sur la tête » et en même temps il finit par s’écrouler dans l’eau de manière spectaculaire, vaincu, comme Otello au troisième acte de l’opéra de Verdi s’écroule avant que Iago ne chante « Ecco il Leon » indiquant le Maure à terre. Geste puissant qui fait image.

Car tout fait image, fait fresque, et produit un théâtre global, où la relation entre les personnages n’est pas l’enjeu principal : il faut en effet dans une telle approche qui inclut le public éviter qu’il observe passivement les héros, comme au théâtre ou au cinéma, et donc éviter le trop grand réalisme des relations personnelles pour éviter des processus d’identification aux individus alors que l’identification doit se faire au niveau du collectif.

Un spectacle fait de signes

Ainsi Christiane Jatahy construit un spectacle habile, en deux parties très différentes, s’appuyant d’abord sur les deux premières, riches en chœurs et en scènes spectaculaires pour capter l’attention du spectateur, comme un tremplin vers les deux dernières parties qui se recentrent sur un tissu dramatique plus traditionnel, dans une sorte d’abstraction (absence de décor, scène à nu) parce que le livret contient plus de monologues et de duos et moins de chœur sauf LE chœur Va pensiero, avec une action qui se déroule sur la scène du théâtre moins que dans la salle comme dans la première partie.

L’idée en effet est de dire au spectateur dès son entrée, nous sommes tous au théâtre, nous allons vivre ensemble le théâtre, disposant à scène ouverte deux miroirs géants l’un sur la salle qui se voit au miroir et l’autre vers la fosse où l’on distinguera pendant l’ouverture le chef qui dirige, sous un autre angle, comme si le public était sur la scène et voyait le chef comme les chanteurs le voient. Utilisation d’effets baroques bien entendu et d’ailleurs l’inspiration baroque me semble évidente soit dans les miroirs, soit dans la multiplication des points de vue visuels, soit même dans l’utilisation de l’eau, comme une des clefs esthétiques de ce spectacle. Nous sommes tous enfermés dans la caverne… Platon nous tient toujours prisonniers.

Ensuite, et dès les premiers ensembles, des choristes dispersés dans la salle au milieu des spectateurs se mettent à chanter, se lèvent de leur siège pour reprendre à pleine voix. Christiane Jatahy, qui sait que le chœur est essentiel – voire symbole- de l’œuvre, va sans cesse mêler le chœur à la salle et ainsi impliquer fortement le public dans une approche très globalisante.

Et comme pour poser immédiatement une contradiction ironique, le chœur Va pensiero… est exécuté avec en scène, en rang, bien ordonné, vu de face et vu du dessus au miroir, dans un moment de silence profond de la salle, comme il se doit, un chœur qui devient non part du public, mais mis en spectacle et à distance sur une sorte de podium. Ainsi, Christiane Jatahy en fait un « pezzo chiuso », un morceau fermé – ce qu’il est un peu- comme suspendu dans l’action. En même temps en rétablissant le rapport traditionnel scène-salle, elle crée comme un rapport religieux, tant le public est concentré et tant le chœur en sort renforcé, dans son dépouillement et sa simplicité. Encore un jeu de contraste où se joue la dialectique de la désacralisation/sacralisation.

Christiane Jatahy joue sur le quatrième mur, qui est habituellement à l’opéra bien plus fort qu’au théâtre parce que les chanteurs et le chœur sont éloignés du public par une barre infranchissable, comme une douve de château fort, la fosse d’orchestre qui sépare ceux qui font la musique de ceux qui l’écoutent. En franchissant cette barre, en effaçant cette frontière (l’orchestre est entre le public et son reflet), la mise en scène donne à la musique une chair nouvelle, une proximité inattendue, créant après la première surprise une émotion physique (la musique a d’abord un effet physique sur nos corps) qui prend et bouleverse avant même le fameux chœur et dès que notre voisine de rang la choriste se lève pour chanter à pleine voix.

Ainsi la musique et l’opéra vont être partout, autour de nous, devant nous, au-dessus, et l’ensemble va être démultiplié par les effets de miroir et les images vidéo ou cinématographiques.

C’est – on l’a dit- une manière d’élargir le champ de vision du spectateur ou de multiplier les points de vue. Ce n’est pas neuf (Castorf fait cela depuis trente ans), mais l’utilisation en est diverse, variée, multiple. On a vu la caméra portée par Zaccaria, elle est quelquefois dans la foule, se concentrant sur des détails, des visages (par exemple des visages dits de la diversité – discrète allusion au thème de l’année sur la migration) quelquefois elle montre des corps morts ou étendus, ramenant cette histoire à ce qu’elle est aussi, une histoire de guerre et de sang, quelquefois aussi on voit une main (les scènes sont en direct ou filmées) anonyme, impossible à identifier sinon par son caractère d’humanité, d’autres fois elle se situe au cœur du groupe, comme un personnage en scène, visions qui multiplient les effets, mais nous démultiplient de manière presque kaléidoscopique. S’appuyant sur des vues des coulisses, le spectateur est volontairement un peu perdu entre ce qu’il voit sur scène et ce qu’il ne voit pas, dans un espace barré par des écrans, quelquefois aveuglé par des projecteurs puissants, d’autrefois inondé d’une pluie (vidéo) impressionnante, à d’autres moments la scène est totalement ouverte, dans sa nudité, faisant du théâtre et de tous ses artifices possibles le décor même de l’opéra ; c’est techniquement très bien fait, cela fait rentrer le spectateur dans l’œuvre en entrant dans l’espace théâtral, sans néanmoins jamais être lourd dans les allusions, veillant toujours à garder la distance avec la trame, tout en la déroulant de manière assez limpide, avec une gestion des mouvements de foule (nombre énorme de figurants et de choristes) particulièrement claire, bien construite qui ne donne jamais l’impression de désordre, mais au contraire de respiration.

Il en résulte un spectacle qui joue sur un large clavier, le théâtre comme lieu, le théâtre comme magie, le spectacle comme source d’émotions collectives mais aussi, sur l’effet direct de la musique sur l’individu qui la reçoit et bien sûr sur le sens de ce chœur symbole, puisque le final a été légèrement modifié.

Verdi avait prévu de finir sur le chœur « immenso Jehovah » mais le soprano Giuseppina Strepponi première Abigaille et future épouse de Verdi voulait mordicus son air final et ainsi le personnage chante sa propre fin… après le chœur final : ici elle le chante dans la salle, au milieu des spectateurs, devant la foule du chœur et des personnages qui la regardent de la scène, devenus à leur tour spectateurs, montrant une solitude totale, celle de l’autre exclue de la communauté qui n’aspire qu’à y retourner, par le pardon et donc une mort qui induit réconciliation générale et presque mystique. Chez Verdi cet air est suivi d’un très court accord conclusif comme point d’orgue. Il n’a visiblement pas voulu écrire un autre final.

La metteuse en scène voulait conclure la production non par la fin traditionnelle, un peu faiblarde théâtralement, mais par une nouvelle exécution du fameux chœur qui cette fois, puisse impliquer le public, et Antonino Fogliani, pour montrer à la fois que cette fin est nouvelle, et que nous sommes au théâtre hic et nunc en 2023, a composé un petit intermède aux sons d’aujourd’hui, très contemporains, qui rompt avec la musique de Verdi et qui rompt le cours de la production, qui sépare du reste consciemment, comme pour donner l’œuvre et son symbole au public. Le silence se fait et le chœur, tout entier dans la salle et dispersé dans tous les espaces des balcons à l’orchestre entame a cappella le Va pensiero, dans un silence religieux de l’ensemble du public, en un moment d’émotion intense. Le texte est affiché pour être repris par la salle, mais c’est d’un effet si puissant que personne n’y songe… et c’est l’explosion finale d’un public vraiment déchainé.

C’est la deuxième mise en scène d’opéra de Christiane Jatahy, après un Fidelio en 2015 à Rio de Janeiro, sa ville natale. Elle propose de l’œuvre une mise en scène très spectaculaire, en cela elle respecte la tradition qui accompagne l’opéra de Verdi, mais aussi très multipolaire, qui refuse l’histoire « historiée », pas de porte d’Ishtar en carton-pâte, pas de temple de Jérusalem en majesté (ou en flammes) au grand dam des esprits rances qui peuplent encore certaines salles et tout en s’appuyant sur de gros moyens, elle affiche une certaine économie par ailleurs, en faisant des personnages des emblèmes plus que des psychologies, en jouant sur notre rapport au monde d’aujourd’hui, migrations, guerres, souffrances, sur nos contradictions, sur la difficulté à faire corps, à faire peuple, à faire humanité .

Les figurants et le chœur font donc groupe, mais quelquefois sortent, furieux, apparemment sans motif sinon celle de désaccords individuels là où le collectif devrait primer. Tout est dit de l’œuvre et de ses conséquences, tout est dit de la valeur cathartique de ce chœur, encore aujourd’hui utilisé par les politiques aussi bien dans les meetings du Front National à l’entrée de Jean-Marie Le Pen déjà signalés, que dans les réunions des indépendantistes catalans parce qu’il évoque la patrie perdue et dans bien d’autres occasions bien peu artistiques.

Mais les hébreux de Verdi sont aussi un peuple opprimé, prisonnier, déporté loin de sa patrie (et qui n’y reviendra pas), ils sont ces victimes des pouvoirs exorbitants et des guerres de conquêtes, comme tant et tant de peuples dans le monde et ils sont en quelque sorte comme l’étendard de tous les peuples opprimés. Seul Zaccaria garde le cap religieux, ferme, décisif parce que clef de l’unité et de la cohésion. Christiane Jatahy dit tout cela sans jamais appuyer lourdement, elle effleure souvent les choses, laissant au spectateur le soin de déduire le reste. Tout est dit, rien n’est superficiel, tout fait sens, et en même temps elle n’oublie jamais l’émotion, la musique et ses effets, elle n’oublie jamais le spectacle et sa force, et elle n’oublie jamais que nous regardons le Nabucco de Verdi, mais nous le regardons en 2023, lestés par les drames que le monde vit.

En jouant sur le visuel, elle utilise la vidéo et le cinéma (c’est son monde théâtral et esthétique) dans une démarche qui fait sens, avec des moyens qui mêlent l’aujourd’hui et l’hier (les effets de miroir toujours impressionnants, il y en a depuis des décennies à l’opéra) mais elle crée aussi une manière de spectacle fait de réalité et d’illusions subtilement mêlées, utilisant l’illusion théâtrale au service non de notre réel quotidien, mais d’une réalité supérieure, celle toujours présente du sens du théâtre dans une société.  Un grand spectacle choral à tous les sens du terme où nous n’oublions jamais qui nous sommes et où nous sommes, et pourquoi tous, dans un théâtre, nous faisons humanité.

L’histoire même racontée par Temistocle Solera et Verdi n’est jamais oubliée, mais Jatahy en tire ce qui pour nous dans cette histoire est important, essentiel même en évoquant discrètement au passage l’ambiguïté du personnage de Nabuchodonosor dans la tradition religieuse aussi bien biblique qu’islamique. L’Orient compliqué aurait dit De Gaulle.  Ce personnage impitoyable et furieux qu’on croit percevoir au départ est modifié par l’expérience de la douleur et du malheur, suit un parcours de rédemption à la fin de l’œuvre et Nabuchodonosor n’est pas traité de manière unilatéralement négative dans les textes religieux quels qu’ils soient : vu du côté des textes religieux Nabuchodonosor est aussi un instrument de Dieu.

Le livret s’appuie sur la seconde prise de Jérusalem qui s’acheva par la déportation des hébreux en Babylonie, une pratique que Nabuchodonosor avait étendue à d’autres peuples du Moyen-Orient actuel et cette communauté déplacée fit souche en Babylonie sans jamais revenir à Jérusalem, une première diaspora en quelque sorte.  Par ailleurs s’il est « moral » ou conforme à notre sens des rapports de force de voir Nabucco se soumettre au Dieu d’Israël et plus généralement au religieux, l’excellent article historique du programme de salle remet un peu les pendules à l’heure. Il est signé de Francis Joannès le plus grand spécialiste actuel de la Néo-Babylonie, notamment de Nabuchodonosor II, sur lequel il a beaucoup écrit et nous donne de claires références à ceux qui voudraient se rattacher à l’histoire et quelques pistes de réflexions : le lien de son long règne d’organisateur et de bâtisseur au Dieu Marduk par exemple, figure soutien de son pouvoir ou la violence de sa seconde prise de Jérusalem dont le roi qu’il avait lui-même vassalisé prend les armes, ce qui provoque ainsi le pillage, l’incendie de la ville et la déportation des habitants.

Dans la mesure où la trame de ce livret est complètement hors-sol, une sorte de parabole biblique qui finirait comme il se doit par le triomphe du vrai Dieu rattachée à la réalité historique par des fils plus que ténus, Christiane Jatahy n’a aucun mal à sortir cette trame de son substrat habituel pour en faire un emblème bien plus puissant pour nous de nos guerres et violences hélas ordinaires, où orgueil des puissants, ambitions, révolutions de palais, manipulation des peuples par les religions sont un pain hélas quotidien. La trame de Nabucco n’est qu’une imagerie pittoresque qui masque une réalité plus cruelle, plus présente, plus redoutable. L’Opéra n’est pas seulement fait pour les admirateurs des toiles peintes du XIXe, mais aussi fait pour nous plonger dans ce que nous vivons. Verdi lui-même ne vivait pas hors de son temps.

Par sa volonté de proximité, Christiane Jatahy redonne à cet opéra de Verdi rebattu et quelquefois représenté à la sauce Vérone, avec barbes tressées et Babylone rêvée (on a déjà vu une tour de Babel…), une réalité, une crudité et une efficacité qu’il avait perdu depuis bien longtemps.

Une distribution confiante et de qualité, un chœur exceptionnel

Jatahy  a visiblement engagé toutes les forces du théâtre dans son aventure, tant chœur, distribution et fosse sont au sommet de ce qu’on peut espérer et tant ils sont engagés dans tous les aspects de la représentation.

À tout seigneur tout honneur, le chœur du Grand Théâtre est ici le noyau de l’affaire, le cœur du réacteur verdien, ici préparé comme on l’a rarement perçu et entendu. Certes, l’œuvre fait partie de son répertoire, elle a été représentée il n’y a pas si longtemps, mais on doit saluer le travail magnifique d’Alan Woodbridge, qui a su à la fois travailler sur le phrasé et la diction, d’une rare clarté, mais aussi sur l’expression, sans jamais donner dans l’excès ou dans un histrionisme qui aurait été contraire au travail d’orfèvre conduit par Antonino Fogliani avec l’orchestre. De plus, il a fait travailler le souffle, la tenue des notes, le relief avec une attention vraiment exceptionnelle avec le plus beau des résultats.

Je crois qu’il n’y a pas de secret dans une prestation réussie à ce point. Elle naît d’une collaboration réussie avec le chef d’abord, mais aussi avec la metteuse en scène, très habile à faire mouvoir les ensembles sans jamais les mettre en porte-à-faux par rapport au chef, par rapport à la salle, même quand une partie est dispersée parmi les spectateurs : il circule ici une joie de chanter et un engagement de groupe rarement perçus à ce point à Genève.

La distribution réunie, faite de très solides chanteurs verdiens, et de bons éléments de la troupe locale (le jeune ensemble) a atteint une très belle homogénéité dans une œuvre à la fois difficile à distribuer, difficile à chanter, et dans laquelle il est souvent difficile de briller. Les membres du jeune ensemble s’en tirent avec présence et brio, aussi bien Giulia Bolcato (Anna) que William Meinert, toujours élégant dans ses interventions (Il Gran Sacerdote) et Omar Mancini, un Abdallo à la belle couleur italienne et au timbre chaleureux.

Du côté des protagonistes, on pense immédiatement au rôle d’Abigaille, comme parangon de difficulté, mais je pense de mon côté à celui d’Ismaele, pour d’autres raisons, un rôle à la fois présent et frustrant, parce qu’il a une présence régulière, une affirmation vocale nette sans jamais avoir d’air soliste véritable qui scanderait l’action, un rôle secondaire sans l’être : pour avoir entendu des Nabucco avec un Ismaele mal distribué, c’est un élément de déséquilibre qui peut entrainer notamment dans les ensembles une catastrophe.

Ici, c’est Davide Giusti qui est Ismaele, une voix claire, assez solaire, bien projetée, et qui a une vraie scénique, comme un personnage un peu perdu entre son amour pour Fenena fille de Nabucco, son appartenance au peuple hébreux et donc dans une situation instable (il bouge tout le temps). Peut-être aurait-il intérêt à contrôler quelquefois le volume et éviter quelques accents véristes, mais il se sort de ce rôle ingrat avec cran.

Fenena, c’est Ena Pongrac, jeune mezzo-soprano croate membre du jeune ensemble dont nous avons déjà évoqué maintes fois les qualités, notamment en Varvara de Katja Kabanova.  Voix sûre, homogène, avec une technique solide, sachant à la fois nuancer, adoucir et monter en volume tout en contrôlant le souffle. À n’en pas douter, Ena Pongrac a un véritable avenir.

Mais le rôle de Fenena demande plus, ou demande plutôt un autre format vocal. Pour donner quelques pistes, Fenena fut interprétée à l’Opéra de Paris par des mezzos de la trempe de Violeta Urmana (certes à ses débuts) ou Viorica Cortez, des voix plus larges, sans parler de Giulietta Simionato, Firoenza Cossotto ou Lucia Valentini Terrani, incontestables mezzos verdiens de légende. La voix d’Ena Pongrac n’a pas (encore ?) le corps nécessaire pour affronter le rôle et cela s’entend dans le duo avec Zaccaria de la dernière partie où elle chante Oh dischiuso è il firmamento ! quelquefois aux limites. Mais elle a du style, et elle sait chanter, et donc malgré tout, la prestation est largement défendable.

Riccardo Zanellato n’a pas non plus tout à fait le format vocal d’un Zaccaria, où l’on entendit jadis des voix plus profondes, plus larges, comme Ruggero Raimondi, Paata Burchuladze, ou Samuel Ramey. De plus la voix semblait un peu fatiguée en ce soir de Première, et la mise en scène le contraint à chanter dans un espace vide en fond de scène, ce qui ne facilite pas la projection. Ainsi sa cavatine d’entrée D’Egitto là sui lidi n’a‑telle pas toujours la force et l’affirmation voulues, même si la prière Vieni, o levita, est nettement plus réussie, très intérieure, et surtout chantée avec une rare élégance, une élégance qui est la qualité centrale de ce chanteur qui sait aussi ce que signifie le poids des mots. Même Verdi jeune est très attentif aux nuances, aux couleurs – ce qu’on oublie quelquefois- et Zanellato sait nuancer et obéir exactement à chaque inflexion voulue par la partition. C’est un artiste qui sait ce que chanter veut dire, et il remplit son rôle avec honneur et sans faillir.

Abigaille est un rôle qu’on pourrait dire impossible. Et qui demande un format vocal hors normes. Un regard sur les grandes interprètes montre que peu s’y sont risquées, quelques légendes, Callas, Scotto, quelques surprises, Rysanek ou Varady mais les grandes Abigailles ne courent pas les rues. Le public parisien, au goût toujours affûté et à la générosité légendaire, avait hué à Garnier Grace Bumbry parce que le soir de la première elle n’avait pas répondu aux attentes de vociomani (maniaques de la voix) ignorants alors qu’elle composait un superbe personnage.

On confond souvent Abigaille et Turandot, on rêve de voix glaciale, droite, d’aigus stratosphériques et on oublie simplement que Nabucco date de 1842, que le diapason n’était pas le même qu’aujourd’hui, que Donizetti est encore vivant, qu’on joue encore Rossini, et que le Grand Opéra règne en maître. Il faut certes des aigus, mais il faut aussi maîtriser des cadences, des scalette, des chutes brutales de l’aigu au grave, en gardant aussi quelque chose d’une rondeur belcantiste. Une Abigaille, c’est un peu Nilsson, un peu Radvanovsky, un peu Scotto… bref, un peu tout à la fois, et surtout à chaque air un peu différente et plus l’une que l’autre.

Hugues Gall avait confié Abigaille à Julia Varady (Madame Fischer-Dieskau pour ceux qui l’ignoreraient) lors de l’ouverture de sa première saison à l’Opéra de Paris, aux côtés de Samuel Ramey et elle reste pour moi un immense souvenir parce qu’elle avait la rondeur verdienne (elle chantait aussi Mozart, Elvira notamment tout en étant aussi Leonora de Trovatore), elle avait le phrasé, elle savait ce qu’agilité voulait dire, sans jamais d’ailleurs surchanter, surjouer ou forcer sa voix. Un vrai soprano lirico spinto d’agilité… et en plus une personnalité scénique qui irradiait.

Tout cela pour souligner qu’il ne faut pas forcément une voix à décibels, mais plutôt une voix étendue et au spectre large, certes, mais souple.

Enfin après un redoutable début qui peut effrayer, peu à peu le personnage a moins de moments vocalement aussi suicidaires que son air d’entrée Prode guerrier ! d'amore

conosci tu sol l'armi ? Il est vrai que le jeune Verdi réserve à ses sopranos des rôles impossibles quelquefois (cf. Lucrezia Foscari).

Et Saioa Hernández est l’une des seules aujourd’hui à pouvoir se sortir du rôle avec panache, comme quoi lorsque le Grand Théâtre veut bien distribuer Verdi il y arrive… La voix franche, droite, est particulièrement étendue, la projection impressionnante, les aigus les plus stratosphériques parfaitement dominés, mais elle sait aussi nuancer, exprimer la douleur, notamment dans son monologue final, chanté dans la salle avec une urgence et une émotion communicatives.

Au cours du monologue qui ouvre la deuxième partie, elle montre vraiment un art du phrasé exceptionnel et une diction très claire dans le récitatif Ben io t'invenni, o fatal scritto ! particulièrement ardu notamment dans les dernières paroles et en même temps aussitôt après dans son air Anch'io dischiuso un giorno (superbement accompagné à la flûte au départ) elle fait montre d’une réelle capacité au lyrisme, à un vrai contrôle sur le volume et un soin particulier apporté au legato…

En même temps, elle interprète, cherchant à donner au personnage une épaisseur qui aille au-delà de la performance vocale, quand elle chante avec sa longue et lourde traine par des gestes montrant la gêne, l’impossibilité même de se mouvoir et elle chante de manière expressive donnant à la parole un poids essentiel. Christiane Jatahy ne demande pas un jeu très élaboré, mais demande qu’on sache s’emparer des symboles et d’un geste furtif qu’on sache faire comprendre au public une situation ou un état d’âme.

C’est peut-être dans les cadences et les vocalises si suicidaires du rôle qu’elle est à peine moins à l’aise dans la précision et la conduite vocale, mais au regard de la force qu’elle donne au personnage et à la prise qu’elle a sur le public, c’est vraiment bien peu de choses et aujourd’hui elle est sans doute l’une des deux ou trois chanteuses possibles dans ce rôle, pour lequel elle obtient un triomphe mérité de la part du public.

Pour Nicola Alaimo, c’est une prise de rôle. Il s’est forgé à Rossini où il est une basse bouffe exceptionnelle, mais aussi un Guillaume Tell notable, comme on avait pu le percevoir à Lyon dans la production Kratzer (voir notre article dans le Blog du Wanderer). Mais c’est aussi un chanteur qui s’est frotté à Verdi et désormais le nombre de rôles verdiens abordés dépasse les rôles rossiniens.

Voilà un chanteur qu’on pourrait dire « historically informed » qui lit les partitions, et qui en tire les conséquences, plus qu’il n’obéit aux traditions de la scène et aux histrionismes qui quelquefois en découlent. On a vu combien ce que Verdi écrivait était quelquefois transformé, passé au hachoir avec un aigu ajouté par ci, un tempo ralenti par là avec des effets scéniques quelquefois plus proches du vérisme que de l’authentique écriture verdienne (on ferait bien par exemple de relire les indications de dynamique de la partition de l’amami Alfredo de Traviata…).

Verdi est d’abord un fin analyste psychologique des personnages qu’il dessine dans sa musique, jamais soucieux de valoriser une voix, mais de valoriser un caractère une situation dramatique. C’est pourquoi, même s’il n’écrit pas ses livrets, c’est un tatillon, un pointilleux avec ses librettistes qu’il ne laisse jamais en repos pour utiliser un mot plutôt qu’un autre, plus adapté à la musique. On doit sans cesse le souligner parce que Verdi est victime de son succès, de ses exécutions nombreuses partout, qui mettent ses partitions aux mains de chanteurs ou de chefs plus routiniers qu’autre chose, soucieux de l’effet immédiat plus que de la vérité musicale (et psychologique) exprimée par la partition. Il n’y a pas un Verdi histrion (le jeune Verdi) suivi d’un Verdi mature et génial. Il y a un parcours et des principes qu’il essaie d’appliquer dès les origines, mais sur lesquels il insistera de plus en plus à mesure des succès. Du coup ses exigences augmenteront et notamment sa pression sur les librettistes. Qu’il termine sa vie en collaborant avec Arrigo Boito, un poète, un des représentants de l’école dite la Scapigliatura, qui se détachait du romantisme et dont Baudelaire était le modèle en dit long.

Un jour, Riccardo Muti fit un Trovatore à la Scala avec comme Motto, Verdi comme Mozart qui laissait supposer que pour le public Mozart était divin et que Verdi l’était moins.  J’aurais tendance à dire Verdi comme Wagner, ils sont nés la même année et font les mêmes constats sur la question dramaturgique à l’opéra. Verdi n’a pas écrit de traités théoriques, mais des opéras qui de l’un à l’autre, et dans tout le parcours du compositeur en disent souvent aussi long que bien des traités.

Pour expliquer ce que je ressens de l’interprétation de Nicola Alaimo, mais aussi de la direction d’Antonino Fogliani qui procède me semble-t-il des mêmes caractères, j’ai voulu revenir à ce que Verdi me fait ressentir, et à ce qui fait son génie : il ne lui faut pas de longs monologues, il lui suffit d’un silence, d’une note dans la partition, d’une observation (sotto voce – à mi-voix- comme le souligne Alaimo par ailleurs là où bien des chanteurs attaquent forte), d’une indication métronomique pour changer toute la couleur d’un moment et donc d’un personnage.

Alaimo propose ainsi un Nabucco bien plus subtil bien plus intérieur, bien plus humain en quelque sorte que la tradition d’exécution nous l’a transmis. On a souvent affaire à des aboyeurs devenus fous subitement calmés par Dieu.  Il ne faut jamais oublier les replis psychologiques de Philippe II dans son futur Don Carlos, qui n’a rien du psychorigide de la tradition. Il y a chez Nabucco toutes les contradictions de l’humain, l’ivresse du pouvoir et l’hybris, certes, mais aussi l’humanité, l’amour pour sa fille, la solitude. Et même l’hybris, même cette affirmation d’être un Dieu, blasphématoire et sacrilège pour certains, a quelque chose d’un aveu de faiblesse obligé de passer par là pour se prouver sa force à lui-même et aux autres.

Nous l’avons souligné, dans l’antiquité, le souverain a toujours quelque chose de transcendant, de divin – et d’ailleurs il était divinisé- mais souvenons-nous aussi de la monarchie de droit divin, de Louis XIV roi Soleil (on est bien proche d’une divinisation toute païenne) ou même de sa descendance supposée d’un Hercule gaulois (le salon d’Hercule à Versailles n’est pas un hasard…). Rien de neuf sous le soleil, le pouvoir a toujours besoin d’être sacralisé pour s’affirmer. Être Dieu, c’est être mis à distance d’une part et ne jamais répondre de ses actes d’autre part.

Ici Nicola Alaimo joue le paradoxe, d’un souverain moins sauvage et indomptable qu’il n’y paraît et qui aide aussi à construire l’opposition Zaccaria/Nabucco, car Zaccaria dans ce cas représente un Dieu tout puissant dont il est la voix, alors que Nabucco s’affirme un Dieu au total sans puissance. Verdi construit lui-même l’aveu de faiblesse de son personnage.

Pour jouer tout cela, on a besoin d’un chanteur subtil, intelligent, qui sache peser chaque mot et l’allier à chaque indication de la partition, qui ne soit ni dans le spectaculaire ni l’histrionisme mais dans la représentation juste d’un profil psychologique moins monolithique qu’on ne le croit généralement. Des années de fréquentation d’un répertoire où l’expression est déterminante (les basses bouffes rossiniennes, ou Falstaff de Verdi qu’il chante aussi), des années de fréquentation d’un répertoire souriant, de personnages comiques où plus qu’ailleurs encore, la parole doit être sans cesse colorée et variée, avec ses ruptures brutales, pour provoquer le rire et dessiner le profil du personnage, ont appris à Alaimo ce que j’appelle le poids des mots et l’intelligence dramaturgique.

Ainsi ce Nabucco est inhabituel, plus complexe, voire presque plus pudique, plus humain et aussi plus dérisoire. Un pouvoir ne s’affirme que par le regard des autres ou la peur des autres, plus que par la force en soi. Et la violence n’est souvent qu’une expression de faiblesse, réponse à ce qui n’est pas réductible par le discours ou l’adhésion. Ici, le Nabucco de Nicola Alaimo s’affirme paradoxalement plus humain que Zaccaria qui garde le dernier mot puisqu’il selon la dernière réplique il dessine lui-même l’avenir « politique » :

Servendo a Jehovah,

sarai de' regi il re!…

(Obéissant à Jehovah tu seras le roi des rois).

Zaccaria faiseur de rois, sorte de grand inquisiteur avant la lettre ? Verdi qui n’aimait pas trop les prêtres ne donne pas forcément à Zaccaria le beau rôle… mais est peut-être plus indulgent avec Nabucco, voire Abigaille…

Et de cette complexité-là Alaimo est le reflet par une interprétation polymorphe, subtile, approfondie. Plus qu’une prise de rôle, une leçon.

Enfin, et dans le même ordre d’idées, le chef Antonino Fogliani propose de l’œuvre une lecture totalement nettoyée de toute scorie qui en ferait une fanfare pour Arènes de Vérone en folie.

Lui aussi est un lecteur attentif des partitions, à qui il pose des questions, lui aussi est un grand connaisseur de Rossini et de l’histoire de ces musiques dans lesquelles Verdi baignait avant de composer. Il connaît parfaitement la limite de ce que peut-être une direction à effets qui satisfait l’oreille profane mais qui ne dit rien ni de la vérité de l’œuvre, ni de sa véritable dramaturgie.

Fogliani sort l’œuvre de sa gangue faite d’effets de manche ou de baguette pour lui donner une autre couleur. Certes, toutes les dynamiques sont respectées, les effets dramaturgiques ménagés, mais dans un discours bien plus subtil qui prend soin de révéler la construction de la partition mettant en valeur des instruments solistes dont on avait oublié la présence, installant un dialogue entre la voix et l’orchestre qui fait conversation, et faisant donc de l’orchestre clairement un personnage, respectant les effets mais les dosant, et surtout en les calant au moment dramatique, sans jamais favoriser l’excès. Il en résulte une fluidité nouvelle, des couleurs inattendues, des moments de vrai lyrisme, et une tension qui doit tout au théâtre et rien à la gratuité du son.   A vrai dire, une interprétation aussi urgente et aussi juste de l’œuvre de Verdi, on n’en entend pas tous les jours, d’autant qu’il est suivi avec un enthousiasme visible par l’Orchestre de la Suisse Romande qui sonne juste et jamais trop, avec une limpidité rare et une vraie présence, les bois sont remarquables, les cuivres toujours en place et contrôlés et une belle homogénéité d’ensemble. C’est simplement remarquable.

Plus on entend Fogliani, dans diverses fosses, au Theater an der Wien dans La Gazza Ladra et l’Orchestre de l’ORF (la radio autrichienne), à Munich avec le Bayerisches Staatsorchester dans Verdi (I Masnadieri comme Otello) ou à Genève avec l’OSR, c’est-à-dire avec des formations de tradition et de qualité différentes, plus on constate qu’il sait à la fois donner aux partitions une vérité et une respiration indéniables, mais aussi faire adhérer les orchestres à des options particulières dont il n’ont pas forcément l’habitude (notamment ceux qui sont habitués à un Verdi de répertoire), c’est un grand chef de théâtre, en pleine maturité, et c’est une chance qu’il soit actuellement une des clefs du succès de ce Nabucco qui restera une pierre blanche dans l’histoire récente du Grand Théâtre de Genève.

NABUCCO in Genf

Christian Jaeger – Operagazet.com – 14 juin 2023

source: https://operagazet.com/nabucco-a-geneve/?lang=de

 

Der Hauptgrund für unser Online-Magazin Opera Gazet, diese Aufführung im Grand Théâtre de Genève zu besuchen, war das Dirigat von Antonio Fogliani, welcher ein ausgewiesener Spezialist für die italienische Oper im Allgemeinen und für Belcanto Opern im Besonderen ist, was sich auf unzähligen Mitschnitten auf dem Label Naxos überprüfen lässt. Hierbei sei als ein Beispiel unter vielen, auf seine Aufnahme der Semiramide von Gioachino Rossini verwiesen, welche unter den erhältlichen Aufnahmen genannter Oper als die musikalisch ausgereifteste und aussagekräftigste Interpretation und daher leicht als Referenzaufnahme gelten kann.

Was Antonio Fogliani musikalisch aus dem Orchestre de la Suisse Romande, dem Chœur du Grand Théâtre de Genève und dem Solistenensemble herausholte, war ein Genuss sondergleichen. Nachdem man sich daran gewöhnt hatte, geradezu veristische musikalische Interpretationen des Nabucco zu Gehör zu bekommen, war es ohrenöffnend, eine belcantistische Herangehensweise zu hören, was eigentlich nur natürlich ist, angesichts der Tatsache, dass der frühe Verdi aus der weiteren Entwicklung seiner Vorläufer, Bellini und Donizetti, entstanden ist.

Die Inszenierung von Christiane Jatahy, mit dem Bühnenbild von Thomas Walgrave und Marcelo Lipiani und den Kostümen An D’Huys war äusserst reich an kreativen und kunstvollen Einfällen. Eine erste Überraschung erfolgte, als man den Saal des Grand Théâtre de Genève betrat. Man sah sich mit zwei riesigen Spiegeln konfrontiert, einer gegenüber dem Saal und der andere Spiegel schräg unter der Decke hängend. Die beiden Spiegel wurden im Verlauf der Oper immer wieder verschoben, mit grossem Effekt, so dass optisch sehr ästhetische und eindrucksvolle Bilder entstanden, beispielsweise im zweiten Teil, als Abigaille mit einem riesigen Rock gekleidet auf der Bühne stand, es jedoch auf dem vertikal stehenden Spiegel schien, als würde sie inmitten einer riesigen Blume stehen.

Zu einem anderen Zeitpunkt wurden die Spiegel gänzlich weggeklappt, so dass man die grosse Leere der riesigen Bühne des Grand Théâtre de Genève vor sich hatte, so z.B. zu Beginn der Wahnsinnsszene des Nabucco im 4. Teil, bei welchem Nabucco sein Rezitativ aus der grössten Entfernung bzw. Tiefe der Bühne begann und sich im Laufe seines Rezitativs auf den Bühnenrand bzw. in Richtung des Publikums zu bewegte, um dort seine grosse Arie zu singen.

Eine weitere Überraschung erfolgte, als im langsamen Teil des Eröffnungschors sich im Zuschauerraum Sänger aus den Sitzreihen des Publikums erhoben, so dass man in einem veritablen Klangmeer badete.

Es gab zwei Kameramänner, welche die Sänger aus der nächsten Nähe filmten, was dann auf einer grossen Leinwand im Hintergrund projiziert wurde und ermöglichte, die Regungen und die Emotionen der Sängerinnen wie durch eine Lupe zu sehen.

Das Eindringen in den Tempel in Jerusalem, bzw. der Auftritt Nabuccos gegen Ende des 1. Teils, erfolgte nicht über die Bühne, sondern über den Zuschauerraum, in den die Männer mit Taschenlampen eindrangen.

Aufgrund dieser Vielzahl an sehr wirkungsvollen Momenten, war man äusserst neugierig, wie das Regieteam die Szene im zweiten Teil, als ein Blitzschlag die Krone vom Haupt Nabuccos schlägt, lösen würde. Jedoch war genannte Szene vergleichsweise unspektakulär, so senkte sich lediglich ein Lichtdach von der Decke der Bühne über dem Kopf Nabuccos.

Obwohl die Inszenierung von der im Libretto vorkommenden Zeitumgebung und Ort losgelöst war, erschien dies dem Libretto gegenüber nicht respektlos, da die Personenführung klar dem Libretto folgte und die Handlung gut nachvollziehbar blieb. Auch der Umstand, dass der Chor und die Solisten kontemporäre Alltagskleidung trugen, war nicht störend, wobei dies teilweise den Eindruck einer sehr gut laufenden Generalprobe ohne Kostüme erweckte. Irritierend war, dass Abigaille im 2. Teil eine Zigarette rauchte, wobei man sich um die Stimme, Luftkapazität und Gesundheit der Sängerin Sorgen machte.

Die Inszenierung war dem Sänger gegenüber respektvoll, schien diese in der Verkörperung ihrer Rollen zu unterstützen und ihnen den nötigen Freiraum zur Gestaltung zu lassen. Man bekam den Eindruck, dass sich alle auf der Bühne wohl fühlten, entspannt und frei agierten, vielleicht mit einer kleinen Ausnahme, nämlich als Zaccaria in seiner ersten Szene während dem Singen für einen kurzen Moment eine bestimmt mehrere Kilo schwere Filmkamera auf den Schultern tragen und hierzu auch laufen musste, was den Gesang für einen kurzen Moment unstet wirken liess und zudem nichts zur Handlung beitrug.

Irritierend war, den Chor am Anfang des 3. Teils nicht singen zu hören, und dass man nach der Einleitung des Orchesters direkt in das Duett von Abigaille und Nabucco überging. Auch der Schluss folgte nicht dem gewohnten Verlauf. So folgte nach der Schlussarie von Abigaille ein stilfremdes, jedoch wirkungsvoll eine mystische Atmosphäre entstehen lassendes «Intermezzo Sinfonico», komponiert, nicht wie zuerst angenommen von Luciano Berio, sondern vom Dirigenten selbst, um schliesslich in einer a Capella Version des «Va Pensiero» zu enden, zu welchem sich der Chor im ganzen Saal auf allen Balkonen der Oper verteilte und welches dermassen klangintensiv war, dass man die aus allen Richtungen kommende Vibration des Chorgesangs am ganzen Körper spürte und man eine Gänsehaut bekam.

Allen Sängern war die Belcanto Erfahrung gemein, was sich auf die musikalische Gestaltung aller Rollen positiv auswirkte. Nicola Alaimo sang die lyrischen Stellen wunderbar phrasierend und anrührend, wobei man sich bei den lauten Stellen etwas mehr Durchschlagskraft wünschte, wobei dasselbe für den Zaccaria von Riccardo Zanellato gelten kann, wobei dessen «Tu sul labbro» sehr innig gelang. Saioa Hernandez hatte keinerlei Mühe die technischen Schwierigkeiten ihrer Rolle zu meistern, musste zu keinem Zeitpunkt schreien oder unter Druck singen, wie man dies bei dieser Rolle so häufig hört, und klang zum Schluss der Oper so, als könne sie noch stundenlang weitersingen. Die Cabaletta gelang ihr besonders gut, wobei sie den Aufstieg zum C’’’ mit dem folgenden Lauf nach unten über zwei Oktaven in einem Atem ausführte, jedoch ohne Triller. Leider wiederholte sie die Cabaletta nicht. Davide Giusti sang einen szenisch und auch klanglich sehr einnehmenden Ismaele mit wohlklingender Stimme und strahlenden Spitzentönen. Ena Pongrac begann ihre grosse Arie im 4. Teil auf einem höheren Ton als üblich, wobei geschmackvolle Variationen folgten. Die weiteren Solisten Giulia Bolcato, Omar Mancini, William Meinert trugen ihren Teil zur sehr gelungenen Vorführung des Nabucco bei.

Das Publikum war begeistert und spendete grosszügig allen Beteiligten Applaus und Bravorufe, insbesondere auch der Regisseurin Christiane Jatahy. Man darf von einem triumphalen Erfolg sprechen.

«Nabucco», un hymne aux opprimés

Julian Sykes – Le Temps - 15 juin 2023

source: https://www.letemps.ch/culture/musiques/nabucco-un-hymne-aux-opprimes-au-grand-…

 

La metteuse en scène Christiane Jatahy s’éloigne du livret originel pour livrer une vision très personnelle et contemporaine du drame verdien. L’orchestre, les chœurs et les voix solistes sont de haut vol

Vous croyiez voir un roi à la couronne, un grand prêtre muni d’un sceptre, un peuple hébreux en haillons et des guerriers sur scène… Eh bien pas du tout! La metteuse en scène brésilienne Christiane Jatahy s’éloigne passablement du livret originel de Nabucco pour offrir une vision contemporaine du drame de Verdi qui reflète des préoccupations plus actuelles: drame de l’exil et de la migration, hymne aux déracinés qui ont perdu leur mère patrie, difficulté à trouver une terre d’accueil. Un spectacle en immersion totale, cherchant à bannir le fossé entre plateau scénique et public.

Du reste, des petits groupes de choristes interviennent à plusieurs reprises, assis dans les rangs parmi les spectateurs ou debout aux balcons. L’épilogue de l’opéra est lui aussi détourné – et revu – pour insérer un bref épisode de musique contemporaine nous ramenant au présent, et faire en sorte que les choristes entonnent à nouveau le fameux chœur des esclaves hébreux Va, pensiero en mode a cappella. C’est une façon touchante d’évoquer la destinée des opprimés. Le collectif l’emporte sur les destinées individuelles, l’assistance étant appelée à se mettre au diapason des déracinés, de celles et ceux qui ont perdu leur patrie pour aller vers un ailleurs.

Images live et enregistrées
L’immersion est totale, à grand renfort de captations live et de vidéos enregistrées, et d’un dispositif scénique qui repose sur un double miroir reflétant le public dans la salle et une partie de la fosse d’orchestre. Le public semble amené à se questionner sur lui-même, et plusieurs spectateurs s’interrogeront à l’entracte sur la pertinence ou non des gros moyens vidéo utilisés, débordant carrément dans l’enceinte de la salle. Ainsi, à un moment donné, des gouttes de pluie – assez magnifiques – s’abattent métaphoriquement sur les spectateurs, comme pour les prendre à partie. Mais paradoxalement, on reste parfois extérieur au propos, tant l’œil est tiraillé d’une scène à l’autre, naviguant d’un plan à l’autre, tout en essayant de comprendre le sens de ceci ou cela.

On est donc loin d’un Nabucco de tradition; c’est une autre histoire qui est racontée ici. En déplaçant l’attention sur le collectif plutôt que sur les destinées individuelles et sur les rivalités amoureuses, Christiane Jatahy – aidée d’une vaste équipe – dresse un hymne aux opprimés de la Terre. La metteuse en scène brésilienne a convié 25 réfugiés qui ont vécu l’occupation dans leurs pays comme figurants, s’entremêlant aux solistes et aux choristes de sorte à créer une marée humaine.

Les vidéos, très présentes, parfois démultipliées, sont projetées sur deux grands miroirs qui bougent et permettent de jouer avec les reflets des chanteurs. Ces miroirs servent aussi de supports de projection des images qui sont filmées en direct avec des plans rapprochés sur les protagonistes. Au-delà du caractère anecdotique de certaines images, on apprécie ces gros plans sur des visages intrinsèquement beaux et expressifs, peaux hâlées, peaux basanées, certaines comme brûlées par le soleil. Les protagonistes sont regroupés en clans, hommes, femmes, parfois les deux. Les enjeux de pouvoir sont suggérés par ces groupes plutôt que par les figures individuelles de Nabucco et Zaccaria, chefs des factions ennemies.

Le chœur est roi
Le dispositif en miroir est magnifiquement exploité pour la grande scène d’Abigaille, enserrée dans une immense jupe aux drapés pareils aux ailes d’un papillon. La mystérieuse robe de mariée-burka de Fenena, à la fois séduisante et oppressante, illustre l’emprisonnement du corps des femmes. A nouveau, la métaphore l’emporte sur le sens théâtral, pas toujours clair et lisible.

On est ébloui musicalement par l’excellence des chœurs, la beauté de l’orchestre à la fois net, cinglant, doté d’une rondeur feutrée, sous la battue inspirée du chef Antonino Fogliani. La soprano espagnole Saioa Hernandez est formidable dans le rôle d’Abigaille aux écarts de tessiture meurtriers; la voix est mordorée et gutturale dans les graves, riche dans le medium, jamais criarde dans l’aigu. Nicola Alaimo prend appui sur sa voix large et puissante pour sa prise de rôle en Nabucco à la ligne de chant superbe – seul l’épisode du foudroiement manque un peu d’effroi.

Riccardo Zanellato est éloquent en Zaccaria, soignant un legato de velours au détriment d’un certain relief dans les graves. Davide Giusti joue la carte du ténor ardent en Ismaele, aux limites d’un chant en force. La jeune mezzo Ena Pongrac (Fenena) souffre hélas de problèmes d’intonation dans son dernier air. Une intense ferveur musicale se dégage de ce Nabucco où le chœur, pour finir, devient roi.

NABUCCO au GRAND THÉÂTRE DE GENÈVE

Philippe Rosset – Resonances-lyriques.org - 14 juin 2023

source: http://www.resonances-lyriques.org/fr/chronique-detail/chroniques-operas/1378-n…

 

 « Il a pleuré et aimé pour tous » (G. D’Annunzio)

De Nabucco, tout semble avoir été dit ou presque : le public attend le fameux « Va, pensiero », c’est l’opéra patriotique, flamboyant, que tout le monde aime, mais qui n’atteint pas le génie de Don Carlos ou plus tard d’un Otello… Mais il est plus rare de souligner la complexité de la partition et le coup de maître absolu qu’est cet opéra de Verdi. Ce soir, au Grand Théâtre de Genève, grâce à un plateau vocal exceptionnel et à une mise en scène très stimulante, c’est bien la sève et la fougue du Maître de Busseto qui ont été mises à l’honneur, avec un Orchestre de la Suisse Romande en grande forme. Ce fut un accueil chaleureux, enthousiaste et mérité de la part du public.

Une mise en scène sobre et pourtant spectaculaire
Commençons, une fois n’est pas coutume, par évoquer la mise en scène. Confié à Christiane Jatahy, cinéaste et auteure brésilienne, à qui fut décerné en 2022 le Lion d’or de la Biennale de Venise pour l’ensemble de son œuvre théâtrale, ce travail est captivant. Les gros plans sur les solistes, qui laissent voir des regards questionnant les arbitraires politiques et religieux intemporels, le grand miroir, tendu au public, favorisant ainsi son immersion avant même le lever du rideau, procédé assez classique post-brechtien, abolissant l’illusion théâtrale, mais d’une grande efficacité dramatique, cette mise en scène épurée, sobre, et pourtant spectaculaire, parvient à faire émerger de très beaux moments de poésie, notamment dans le premier tableau, où l’eau joue un rôle capital, mais aussi au début du deuxième tableau quand Abigaille découvre qu’elle n’est en fait qu’une esclave (« Ben io t’invenni, o fatal scritto ! »), les murs se recouvrent de l’écriture de la lettre, plus tard déchirée devant Nabucco, et ce sont alors les morceaux de papier qui se réverbèrent dans la salle. Christiane Jatahy utilise avec intelligence les caméras (même Nabucco peut ainsi filmer sa fille en direct !) qui apparaissent comme des armes de surveillance, mais qui parviennent à saisir l’individualité de la souffrance des personnages du chœur. Elle gomme bien entendu toute référence biblique historique, et ne retient du livret que les concepts philosophiques, entre lutte contre l’arbitraire, nécessité de la révolution, mise en évidence des intégrismes religieux… De ce point de vue, c’est réussi, même si l’on peut regretter la banalité des costumes (sauf le jeu sur l’échange de la veste entre Nabucco et Abigaïlle). Mention spéciale à la robe de Fenena qui renvoie à l’emprisonnement du corps des femmes, leitmotiv de la mise en scène, avec une multiplication de ce vêtement qui nous hante jusqu’à la fin. C’est bien cette intemporalité du fanatisme qui est exhibée, non pas un simple clin d’œil de circonstance à l’actualité, mais véritable effort de réflexion sur l’universalité et la persistance du mal. On peut toujours s’interroger sur la pertinence de la modernisation de certaines mises en scène. Je pense que l’on trouvera de belles réponses chez Daniel Mesguich, metteur de scène contemporain, qui considère qu’une mise en scène est comme une rivière qui irrigue d’autres fleuves : autrement dit, le Nabucco de 1842 a désormais grandi, il est enrichi de nouvelles significations, il est devenu autre, et une mise en scène est par définition périssable : elle dit toujours où l’on en est avec une œuvre. Dans le cas présent, on se réjouira de beaux moments, telle la scène 2 du 3e tableau, où Zaccaria (Riccardo Zannellato, souverain) sème le trouble avec ses prophéties, provoquant le départ de certains Hébreux révoltés, visiblement peu enclins à croire le visionnaire et ses prédictions. On peut saluer ce travail de mise en scène, d’autant plus que la musique la sert avec fluidité et harmonie.

Un Orchestre de la Suisse Romande qui révèle la subtilité d’une partition trop souvent mal jugée
Musicalement, c’est donc une belle réussite : dès l’ouverture, avec un premier thème joué legato, puis une vraie force et une rapidité galvanisante, à la Muti, le chef Antonino Fogliani, rompu au répertoire belcantiste et verdien, fait le choix de présenter une partition aérée, subtile, loin des clichés qui entourent encore parfois cette œuvre du premier Verdi. On a tendance en effet à oublier que l’écriture verdienne, qui s’éloigne peu à peu des stylèmes de Donizetti et de Rossini (même si le Mose du Maître de Pesaro reste un modèle perceptible), quoique survoltée et énergique parfois, pleine de fougue et d’emphase (on ne guerroie pas au son du triangle et des clochettes !), sait se montrer d’une légèreté, voire d’un intimisme, dont Aïda se souviendra. C’est précisément cette finesse orchestrale à laquelle s’attache Fogliani, qui nous révèle la clarté aérée de certains passages presque chambristes, notamment le violoncelle, parfaitement mis en valeur du début à la fin de l’opéra. Moment intimiste et émouvant que ce poignant souvenir du bonheur chanté par Abigaïlle dans la scène 1 du 2e tableau (quelles flûtes !). Le chef n’est pas en reste dès lors qu’il s’agit de soulever les masses orchestrales mais il le fait toujours avec finesse et pudeur, et l’Orchestre de la Suisse Romande est toujours juste et précis, à l’unisson d’un plateau vocal des plus raffinés.

Un plateau vocal dominé par l’Abigaïlle saisissante de Saioa Hernández
Les voix en effet ne furent pas en reste, oscillant entre le bon (Davide Giusti en Ismaele, voix jeune, incarnation physique et échevelée, dont un combat dans l’eau lorgnant vers West Side Story !), le très bon (Nicola Alaimo, pour une prise de rôle attendue, qui compose un Nabucco physiquement engagé, charismatique, avec une voix toujours bien posée, un modèle de diction et d’intelligence du texte ; la Fenena d’Ena Pongrac, belle diction, émotion contenue, sobriété, qui s’accorde bien au rôle ; le Zaccaria de Riccardo Zanellato, hiératique et souverain) et… l’excellence, avec une Saioa Hernández qui domine aisément le rôle : on peut dire qu’elle est incontestablement la grande Abigaïlle de notre temps. Elle a les aigus nécessaires, mais aussi la ductilité vocale, une homogénéité du grave à l’aigu (les scalette initiales sont un modèle de ce point de vue) mais, et c’est rare, elle sait être retenue, ce qui la rend, surtout dans la scène où elle chante à même le sol, entourée d’une robe géante arachnéenne, profondément émouvante. Indéniablement, elle maîtrise le rôle, dont elle donne à entendre toutes les forces et les failles. Le monstre humain. L’oxymore vocal incarné. Le sens de la nuance. Une réussite totale. Il y a de la Turandot en elle…

Un chœur qui donne au spectacle une dimension cathartique
La grande réussite de la soirée, incontestablement, ce sont bien sûr les chœurs du Grand Théâtre de Genève, dirigés par l’excellent Alla Woodbridge. On retient l’excellente idée de Christiane Jatahy qui a décidé à maintes reprises de répartir les choristes dans le public, au parterre et aux balcons, créant non seulement un effet stéréophonique saisissant, mais aussi une forme d’immersion, rompant l’illusion théâtrale, renouant paradoxalement avec la fonction du chœur dans la tragédie grecque. Le fameux « Va, pensiero sull’ali dorate » n’est ainsi plus interprété comme un passage obligé (voire une scie !) mais comme un vrai moment d’émotion, dans lequel le cœur donne toute la mesure de ses moyens. Bien entendu, je me montre plus étonné, parfois un peu réservé pour le finale : on sait que l’opéra devait se terminer par le spectaculaire chœur « Immenso Jehovah » ; l’arrivée d’une Abigaïlle empoisonnée et mourante, était une demande de la Strepponi, future Madame Verdi. Antonino Fogliani fait le choix de caler après le chant final un intermezzo symphonique composé par ses soins, pendant que défilent des robes d’esclaves de Fenena, une musique dont la modernité peut surprendre, bien qu’elle ne défigure pas totalement le propos. Arrive alors de nouveau le chœur, qui reprend le « Va, pensiero », disséminé dans le public, et chanté a capella, lumières allumées. Fogliani explique ce choix en disant vouloir faire un pont entre les luttes du Risorgimento et les combats de notre temps. A mon sens, la seule reprise du chœur, déjà contestable sur le plan du fameux respect de la partition, eût suffi à montrer toute l’université du propos. Mais il faut admettre que ce finale surprenant a su créer un moment étonnant, grandiose, et, osons le mot, cathartique : nous sommes tous des exilés, nous sommes aussi l’humanité souffrante, avec nos guerres, nos fanatismes, nos nations à la dérive et nos passions contradictoires. Nous pleurons et nous aimons pour tous.

Au total, une belle soirée, homogène, théâtralement et vocalement réussie : il est temps de courir encore au Grand Théâtre de Genève pour applaudir cette production étonnante.

Nabucco | Nabuchodonosor

François Cavaillès - Anaclase.com - 15 juin 2023

source: http://anaclase.com/chroniques/nabucco-nabuchodonosor-5

 

Le lien entre opéra et politique semble au plus fort dans Nabucco, tant le troisième ouvrage lyrique de Giuseppe Verdi, créé à la Scala en 1842, se trouve vite en phase avec le Risorgimento, mouvement pour la liberté de l’Italie. Le chœur des esclaves s’imposera à la hauteur d’hymne national. Cet étonnant accord entre art et militantisme, aujourd’hui très clair au regard de l’Histoire, s’est établi avec un léger contretemps, comme le précise l’italianiste savoyarde Aurore Frasson-Marin :

« Verdi n’ignore certainement pas les propos de Giuseppe Mazzini, le théoricien du Risorgimento, qui en 1836, sous le titre de Filosofia della Musica, avait tenu des propos critiques sur “la crise” de l’opéra italien jugé trop superficiel, trop concentré sur la recherche de sensations momentanées et qui suggérait que le chœur devienne, dans le drame musical moderne, “une véritable représentation de l’élément populaire”. Mais contrairement aux premières thèses historiographiques, ce n’est qu’après les autres reprises de Nabucco à Florence, Venise, Rome, Bologne que le mélodrame s’impose comme le chant du Risorgimento. Bien plus efficace que ne pouvaient l’être la littérature et le grand roman populaire de Manzoni I Promessi sposi (Les fiancés,1821) qui aura tout de même contribué à faire du toscan la future langue nationale, avant même que l’unité ne se réalise. Dans une population analphabète à 90% qui adore la musique, le mélodrame est le meilleur vecteur de communication. Déjà l’air du chœur de Nabucco est repris dès les répétitions par les techniciens puis par le public, on le siffle dans les rues au nez et à la barbe des soldats autrichiens, il fera le tour de la péninsule et de l’Europe » (in Verdi et le Risorgimento : temps fictif, temps de l’histoire,communication de 2011).

Et cette vogue perdure jusqu’aux rivages du Léman, puisqu’en clôture de la saison genevoise, la metteure en scène Christiane Jatahy signe un Nabucco expérimental qui place l’essentiel Va, pensiero au cœur d’un audacieux dispositif participatif rapprochant, dans l’enceinte du Grand Théâtre, chanteurs professionnels et chanteurs amateurs. Au centre d’un décor nu tout en largeur, selon la scénographie de Marcelo Lipiani et Thomas Walgrave, deux immenses miroirs amovibles reflètent nettement, et de manière parfois troublante, le spectacle très contemporain, dans les costumes d’An D’Huys, tenues passe-partout de protagonistes proches du public, à plus d’un titre. En effet, par une transposition vigoureuse, les héros de l’argument biblique sont entourés de figurants et d’artistes du Chœur du Grand Théâtre aux oripeaux salis par le drame de migrants pataugeurs ou recouverts d’une burqa de mariée – premier élément du moodboard présenté en brochure de salle. Mais encore sont-ils filmés en direct, les images étant retransmise au fond de la salle à travers un joli filtre de couleur. Outre ces nombreux gros plans, la grande exposition d’intimité confuse est poussée jusqu’à la pure et simple abolition de l’espace scénique, faisant enfin chanter artistes et spectateurs au parterre, dans les travées ou au balcon.

Étrangement présenté, le melodramma convainc par son rythme effréné, la sincérité de son message poétique et humaniste, et par son absence générale de misérabilisme, bien que sous l’éclairage cru signé Thomas Walgrave. En dépit de surprises acoustiques, comme lorsque la masse vocale englobante nuit à l’orchestre toujours resté en fosse, tous les chanteurs, irréprochables, ravissent les amateurs de bel canto, dans l’écrin verdien offert par l’Orchestre de la Suisse Romande et le chef Antonino Fogliani, à la robuste poigne. Ainsi le tonus de la Sinfonia aux contrastes bien marqués déborde-t-il généreusement du chœur, également capable d’éruptions pour accentuer la puissance patriotique.

Bien tenu par la basse Riccardo Zanellato, Zaccaria, le prêtre hébreu, a tout du politicien populiste, prêt à se charger lui-même de la caméra tout en déclamant une cavatine à la ligne épurée... comme pour mieux manipuler son monde. La cabalette suivante, imparable pour l’ardeur et pour le souffle, s’achève sur de jouissifs triolets avant l’aperçu de deux superbes voix, celle du mezzo Ena Pongrac en Fenena, captivante dans on air final, et celle du ténor Davide Giusti, Ismaele tout de charme confiant, à terre, un amour vaillant. À leur opposé, portée par un orchestre maléfique à souhait, arrive la perfide Abigaille incarnée par le soprano Saioa Hernández, admirable dans l’émission d’une largeur impressionnante et néanmoins proprement émincée par le chant.

Plus délicieuse encore, l’apparition du roi Nabuchodonosor montre vite les signes d’une prise de rôle réussie de Nicola Alaimo, authentique baryton verdien, par ailleurs fin comédien jusqu’au délitement du personnage. Après sa cabalette coffrée à merveille et aux accents surprenants, le concertato bien lancé déchaîne un déluge d’eau et de vidéo, traversé par la fureur du rôle-titre et d’une fosse tout aussi sublime. Tandis que William Meinert imprime une juste nervosité au Grand Prêtre, Abigaille soigne l’aria avec beaucoup de finesse. Mais l’écart entre fond et forme se creuse à travers les repères de la partition, dans la conséquente représentation d’un curieux jeu théâtral près de transformer des personnages historiques en simples amateurs dans la dégradante course actuelle à l’individualisme. Le triomphateur de la soirée reste la formation chorale, extrêmement sollicitée, jusqu’au tant attendu Va, pensiero, doux comme une brise caressante.

Sitôt le rideau tombé, il sera d’ailleurs resservi a capella à travers les rangées de fauteuils, avec les paroles en sous-titres et sous de vives lumières en salle (comme un karaoké peu suivi). Entre-temps, d’une touche contemporaine proche de la musique de film, un bref intermezzo composé par Antonino Fogliani aura refermé ce Nabucco sensationnel, donné à une heure inusitée. Le dimanche soir ressemble alors moins à la fin d’un cycle routinier qu’à l’aube d’une nouvelle extinction de masse.

Un Nabucco fourre-tout

Jacques Schmitt – ResMusica.com – 14 juin 2023

source: https://www.resmusica.com/2023/06/14/a-geneve-un-nabucco-fourre-tout/

 

Chaleureux accueil du public pour cette première de Nabucco de Giuseppe Verdi dont l’intrigue disparaît derrière une mise en scène obscurantiste plus soucieuse de l’effet visuel que de la narration.

Lorsqu’en fin de spectacle, alors qu’Abigaille devrait mourir en avalant un poison, ce qu’elle ne fait pas pour s’évanouir bien portante et anonyme dans la foule, soudain surgit une étrange musique moderne et contemporaine. On croit d’abord à une malencontreuse manipulation d’un ingénieur du son envoyant cette musique incongrue dans les haut-parleurs de la salle, puis on réalise que c’est l’Orchestre de la Suisse Romande qui joue un intermède composé pour la circonstance par le chef d’orchestre Antonino Fogliani. On découvre alors que cet intermezzo permet au chœur de quitter la scène et de se répandre dans la salle du Grand Théâtre pour reprendre le fameux chœur des Hébreux avec l’espoir de réveiller un karaoké collectif des spectateurs. D’ailleurs, pour qu’il suive bien le mouvement, les surtitres jusqu’ici en français et en anglais, sont en italien. Haut les cœurs, spectateurs, c’est à vous de faire le show !

On redoutait une transposition du conflit israélo-palestinien, c’est à un bien autre spectacle qu’il nous est donné d’assister dans la mise en scène de la Brésilienne Christiane Jatahy et de son imposante équipe. Pour qui connait cet opéra par cœur, comme pour qui n’en connait que le chœur des Hébreux, aucune importance. Ce qu’il voit sur la scène du Grand Théâtre de Genève n’a strictement rien à voir avec l’argument de l’œuvre. Sur un plateau nu, Christiane Jatahy n’échappe pas à la mode en montrant des situations anecdotiques plutôt que de montrer les enjeux de l’intrigue. Ainsi, ces femmes errant sous des robes de mariées inspirées de burkas dont deux d’entre elles s’écroulent au sol, peut-être victimes de féminicides ? Qu’importe encore de l’opposition des Juifs et des Babyloniens, tous les personnages se mélangent, dans des costumes d’une banalité affligeante. On ne sait pas qui est qui, on n’y comprend rien. Tiens ! voilà Zaccaria, une caméra sur l’épaule filmant la foule réunie autour de lui. Il sera bientôt remplacé par deux caméramans qui se chargeront à leur tour de filmer chanteurs et gens du chœur pour les envoyer sur un écran géant en fond de scène sans que ces vues amènent un quelconque éclairage à l’action. Les caméramans filmant les protagonistes sont les nouveaux accessoires de mises en scène actuelles. Par le passé, nous avions les roulottes, puis les échelles, puis les néons, enfin les chaises. Aujourd’hui place aux caméras ! Un monde d’accessoires admirablement et spirituellement annoté par le regretté Philippe Beaussant dans son ouvrage «La Malscène».

Arrivée de Nabucco, roi de Babylone. Pas de couronne mais un complet-veston bleu, bleu-roi évidemment, doit en montrer l’évidence. Sa fille, la princesse Fenema peine à imposer son rang dans sa robe d’été grisâtre. Ni d’ailleurs Abigaille, fille bâtarde de Nabucco, en pantalon large et chemisier. Ismaele, prétendant à la main de Fenema est quant à lui en jeans. Comprenne qui voudra, mais entre royauté et peuple, la distance sociale est ténue. Dans une colère subite, Nabucco s’en prend à Ismaele, le bousculant dans une pataugeoire dans laquelle baigne un immense tissu d’un brun doré dans lequel Abigaille s’enroulera sans qu’on saisisse l’éventuel message accolé à cette manœuvre. Pestant des pieds, éclaboussant le chœur, Nabucco exulte pendant que des individus se jettent sans raison dans cette piscine improvisée. Bientôt, Nabucco tombe à la renverse dans l’eau de la pataugeoire. Rideau, fin du premier acte. On vide la mare, on éponge la scène et on repart dans ces mêmes invraisemblances pendant les trois actes suivants.

Et, à chaque instant, monte l’envie de hurler à travers la salle : « Viva Verdi ! » Non pas par désir politique comme l’avaient fait les patriotes italiens en soutien au Roi Victor Emmanuel, mais parce qu’au-dessus des fantaisies scéniques plane majestueusement la musique du maître de Busseto. Certes, elle n’a pas encore la finesse des opéras suivants mais, quelle force immense se dégage de ces pages. On ferme les yeux pour se pénétrer de la puissance émotionnelle de cette musique. D’emblée, l’ouverture donne à l’Orchestre de la Suisse Romande un allant formidable laissant percer leur plaisir de jouer cette musique des sens. A ce jeu, le chef d’orchestre Antonino Fogliani donne à l’ensemble romand des élans lyriques du plus bel effet. A noter encore, comme toujours, la préparation du Chœur du Grand Théâtre de Genève dont les interventions précises et musicalement impeccables soulèvent l’enthousiasme.

Du côté des solistes, la palme du plateau va sans contredit à la soprano Saioa Hernández (Abigaïlle) dont la présence vocale impose le respect. Chantant au plus près du texte, avec une voix puissante, des aigus somptueux non sans rappeler ceux d’une jeune Montserrat Caballe, la soprano espagnole n’a aucun besoin d’être mise en scène. Sa voix seule suffit. On sent chez elle, la leçon apprise, le respect de la ligne de chant, le sens de l’œuvre, l’esprit du personnage, l’envie de convaincre. Sans tirer la couverture à soi, Saioa Saioa Hernández impose sa personnalité à la scène qui, par souci de vérité, dépasse parfois l’intention scénique, pour autant qu’il y en ait eu une. A ses côtés, le baryton Nicola Alaimo (Nabucco) s’emploie à donner sens à son personnage avec une voix bien conduite. Après un début un peu timoré, le chanteur dégage une ampleur majeure dans ses interventions. Si les références du rôle sont nombreuses, le baryton italien ne dément pas ses capacités de figurer parmi les meilleurs. On apprécie particulièrement son « Donna, chi sei ? » en duo avec Abigaïlle au troisième acte où il se révéle particulièrement touchant d’humanité. On reste moins convaincu par la prestation de la basse Riccardo Zanellato (Zaccaria) que nous percevons aux limites de sa voix, particulièrement dans l’extrême grave quasiment inaudible. La voix de Davide Giusti (Ismaele) est en revanche bien implantée.

Enfin, le public acclame chaleureusement ce spectacle impressionnant, parfois même beau, mais dont l’esprit de l’œuvre verdienne est dévoyé au profit d’une envie de briller et d’être en phase avec une société avide de sensationnalisme.

Le chœur, protagoniste de Nabucco

Renato Verga – PremiereLoge-Opera.com - 14 juin 2023

source: https://www.premiereloge-opera.com/article/compte-rendu/production/2023/06/14/a…

 

Grand succès pour le nouveau Nabucco genevois, où une interprétation musicale de qualité répond à la vision forte proposée par Christiane Jatahy

Nabucco et le Risorgimento

La saison du Grand Théâtre de Genève, intitulée « Mondes en migration », s’achève avec un opéra emblématique ayant pour sujet principal les vicissitudes d’un peuple en quête de patrie. Le livret de Temistocle Solera s’inspire d’un épisode de l’Ancien Testament dans lequel le roi de Babylone Nabuchodonosor conquiert la ville de Jérusalem et réduit le peuple juif en esclavage. Dans l’Italie de 1842, année où Verdi présente son troisième opéra – peu après le fiasco d’Un giorno di regno -, le climat politique suggère une lecture liée à la contemporanéité de l’époque : Milan étant occupée par les Autrichiens, il est facile pour les Milanais de s’identifier au peuple juif asservi par les Babyloniens.

Particulièrement attentifs à interdire toute manifestation qui pourrait laisser entrevoir une pensée révolutionnaire, les Autrichiens, en cette soirée du 9 mars, ne purent cependant empêcher la reprise de ce chœur déplorant le sort d’une « patrie si belle et si perdue » et, quelques années plus tard, le patronyme de Verdi devint l’acronyme de « Vittorio Emanuele Re D’Italia » et le « VIVA VERDI » que les patriotes placardaient sur les murs de leurs maisons prit une signification qui allait bien au-delà de l’amour des Italiens pour la musique de leur plus grand compositeur.

Cette lecture de l’histoire biblique liée au Risorgimento est souvent présente dans les productions italiennes les plus récentes de Nabucco : ce fut le cas, par exemple, dans la mise en scène de l’Arena di Verona il y a quelques années, dans laquelle le metteur en scène Arnaud Bernard avait transporté l’histoire biblique en 1848, l’année de l’apogée des soulèvements révolutionnaires en Italie, et au lieu du temple de Salomon ou des jardins suspendus de Babylone, une maquette fidèle du théâtre de la Scala trônait sur la scène.

C’est donc avec une grande curiosité que l’on attendait la mise en scène de Nabucco de la Brésilienne Christiane Jatahy, actuellement à l’affiche à Genève, presque certain qu’il n’y aurait pas d’allusions au Risorgimento dans sa lecture – ce que le spectacle a confirmé.

La lecture de Christiane Jatahy
Artiste aux multiples modes d’expression, Jatahy est autrice, metteuse en scène et cinéaste. Elle s’est particulièrement intéressée à la relation entre le cinéma et le théâtre et, en termes de contenu, aux questions raciales. Lauréate du Lion d’or pour l’ensemble de sa carrière à la Biennale de Venise en 2022, sa pièce Depois do silêncio, présentée récemment au Piccolo de Milan, conclut sa « Trilogie des horreurs », des horreurs dénonçant les mécanismes du fascisme, la masculinité toxique et le pouvoir politique, ainsi que le lien entre le racisme et le capitalisme.

Avec la même intensité que ses autres productions qui ont fait sensation lors des dernières éditions du Festival d’Avignon, Jatahy s’attaque pour la seconde fois à l’opéra avec une approche originale, mais en utilisant des moyens qui ne sont pas inconnus sur les scènes d’opéra. On y trouve en effet deux grands miroirs qui se déplacent en oblique pour refléter les acteurs sur scène ou le public lui-même, un bassin d’eau dans lequel barbotent les chanteurs, des écrans sur lesquels sont projetées les images filmées par deux steadycams, des vidéos qui complètent les images réelles déjà riches, et des choristes disséminés dans les stalles. Bien que déjà vus à maintes reprises, ces moyens expressifs acquièrent ici une efficacité convaincante, presque inédite, comme l’énorme miroir qui se transforme en écran pour augmenter le nombre de personnages sur scène, faisant ainsi du chœur le véritable protagoniste. Le chœur dans les stalles n’est pas nouveau, mais il a toujours un impact émotionnel. On se retrouve alors tout près du siège d’une soprano qui se lève et entonne « Gran nume, che voli sull’ale dei venti« , ou quand, à la fin, résonne autour des spectateurs, dans les gradins et les galeries, le chœur « Va’ pensiero » entonné a cappella en guise de finale de l’opéra ! Le finale ? Nous y reviendrons.

Pour sa proposition conceptuelle, la metteuse en scène organise un spectacle qui, sous son apparent minimalisme, fait preuve d’une grande complexité, comme en témoigne l’éventail des personnes qui y sont employées : outre la dramaturgie de Clara Pons, ici chez elle au GTG, les décors de Thomas Walgrave et Marcela Lipiani, les costumes d’An D’Huys et les éclairages de Thomas Walgrave, la présence de spécialistes pour la coordination audiovisuelle, pour le développement des systèmes vidéo et la création sonore et, enfin, d’un directeur de la photographie, a été nécessaire. Le résultat est une séquence d’images de grand impact : l’une d’entre elles est l’énorme « manteau » imbibé d’eau qui remplace la couronne, symbole du pouvoir, dont est enveloppée Abigaille, par ailleurs vêtue d’un costume bleu, celui de nombreuses femmes puissantes d’aujourd’hui. La présence du grand chœur et d’un nombre tout aussi important de figurants remplit la scène où alternent des impressions de plénitude et de vide, et où les histoires personnelles sont submergées par les événements politiques qui ne laissent aucune place à l’amour de Fenena et Ismaël : « L’histoire que nous racontons ne se concentre pas seulement sur Nabucco en tant que personnage, mais bien plus sur une réflexion de la conquête d’un peuple par un autre et sur la répétition historique de cette forme de suprématie. L’écriture du pouvoir, son inscription dans le monde, n’a pas changé et sa transcription – sa retranscription dans le cas d’Abigaille – repose sur une énergie de puissance que l’on pourrait dire masculine, de conquête. Pour nous, cette pièce ne parle donc pas seulement des responsables, mais aussi de l’équilibre entre ces responsables et le collectif. Ici, ce grand groupe de personnes s’appelle un chœur, mais il ne s’agit pas d’une entité unique : c’est une pluralité d’individualités qui, bien que souvent réduites à la même chose, créent des collectifs. En fin de compte, bien sûr, c’est nous tous », dit la metteuse en scène. Et en effet, le chœur n’est pas monolithique : pendant la péroraison de Zacharie «Oh, chi piange?», certains s’en vont découragés, ne croyant pas à sa prophétie, et le grand miroir reflétant les images des spectateurs, nous amène à réfléchir encore plus sur nos problèmes contemporains.

Une très belle réussite musicale
Cette lecture de la metteuse en scène trouve un parfait ancrage dans la direction d’Antonino Fogliani à la tête de l’Orchestre de la Suisse Romande. Dès les premières notes de l’ouverture, le ton intimiste et feutré qui dominera la soirée se dessine. Le grand miroir reflète les gestes amples du chef de Messine, où chaque bras possède un rôle distinct, avec l’apport essentiel de la main gauche qui définit le volume sonore et la couleur d’une partition qui, dans son âpreté, laisse déjà entrevoir le génie à venir de Verdi. La direction de Fogliani est toujours très attentive à l’équilibre avec les voix sur scène pour permettre à Nicola Alaimo de cerner au mieux le personnage éponyme, qui prend ici la grandeur d’un Roi Lear shakespearien, passant de l’arrogance du pouvoir à la folie qui le sauve. Et comme dans le meilleur Shakespeare, le mot devient son et le phrasé devient un discours d’une grande incisivité. Une performance magistrale d’Alaimo, à laquelle le public du théâtre a réservé des ovations méritées.

Moins puissant en termes de projection vocale, Riccardo Zanellato a également réussi à dessiner un Zaccaria autoritaire par la sensibilité et l’intelligence avec lesquelles il a su tirer le meilleur parti de son instrument vocal, vecteur d’une expressivité efficace. L’Abigaille de Saioa Hernández ne manque certes pas de projection vocale, mais ici plus encore que par le passé, la chanteuse espagnole a su gérer la puissance du son et la particularité de son timbre pour définir un personnage auquel elle a donné une grande présence dans toutes ses apparitions. L’Ismaël de Davide Giusti a connu des moments de rugosité vocale qui seront certainement résolus avec le temps, tandis que les quatre membres du Jeune Ensemble du théâtre ont réalisé une excellente prestation : Omar Mancini (Abdallo), Giulia Bolcato (Anna), William Meinert (Gran Sacerdote) et surtout Ena Pongrac, une Fenena au tempérament, à la présence scénique sûrs, au timbre personnel et à la maîtrise technique déjà évidente.

Enfin, le chœur, le véritable personnage central de Nabucco, a participé à un spectacle particulièrement complexe, notamment en raison des exigences particulières de la mise en scène, mais sous la direction d’Alan Woodbridge, l’ensemble a fait preuve d’une grande maîtrise et d’une belle précision. Le chœur se voit confier le dernier mot dans cette version : il n’y a pas eu de bis du « Va’ pensiero » dans la troisième partie, « La profezia« , mais le célèbre chœur est entendu une seconde fois après un interlude symphonique écrit par Fogliani lui-même, qui rejoint les paroles d’Abigaille mourante. On sait que Verdi voulait terminer l’opéra sur le chœur « Immenso Jehova« , mais Giuseppina Strepponi, la première interprète d’Abigaille, avait refusé de mourir en dehors de la scène et voulait avoir le dernier mot. À la demande de la prima donna – et de sa future épouse –, le compositeur n’eut d’autre choix que d’écrire un finale non prévu à l’origine, avec la conversion de l’héroïne. Au Grand Théâtre de Genève, une fin alternative est mise en place par le metteur en scène et le chef d’orchestre : sur les notes accompagnant les derniers mots s’échappant de la bouche d’Abigaille « te chiamo… o dio… te venero !… | non ma… le… di… re a me ! … », une page à l’esthétique moderne – rappelant vaguement le style du finale de Turandot par Berio –  permet une transition vers le chant a cappella des choristes dispersés dans la salle, qui entonnant une seconde fois la plainte des « Juifs enchaînés et astreints au travail » sur les rives de l’Euphrate.

Qui sait comment aurait réagi le public de Milan ou de Parme, où ce chœur est un second hymne national et où Verdi est pour beaucoup « intouchable »… Ici, sur le lac Léman, l’émotion est intense et l’enthousiasme irrépressible. Verdi lui-même aurait peut-être été satisfait…

Quand l’opéra résiste au mélange des genres

Maurice Salles – ForumOpera.com – 13 juin 2023

source: https://www.forumopera.com/spectacle/verdi-nabucco-geneve/

 

Vox populi vox dei ? A en juger ainsi, l’enthousiasme qui a salué samedi soir la mise en scène du Nabucco confié par le Grand Théâtre de Genève à Christiane Jatahy prouve que c’est une réussite indiscutable. Pourtant on peut s’interroger sur la proposition. Pour cette artiste brésilienne qui se définit comme auteure, metteuse en scène et cinéaste cet opéra – le deuxième qu’elle met en scène – est une occasion de plus d’interroger, comme elle le fait depuis près de vingt ans la notion de frontière entre les arts et de traiter un thème récurrent dans son œuvre, celui des populations déplacées. Quel lieu plus indiqué que la ville où siège le Haut-Commissariat pour les réfugiés ? Mais quel rapport précis avec le Nabucco de Verdi et Solera ?

Dans cette œuvre, conformément à l’essence du théâtre, le spectacle des vicissitudes vécues par les personnages sert à l’édification du spectateur, qui les voit affronter des épreuves dont il est bien aise d’être épargné mais dont il sait qu’elles existent,  ce qui l’amène à réfléchir sur ces situations et sur lui-même. Mais il peut se sentir aussi concerné par les sentiments collectifs qu’expriment les chœurs – qui n’a pas envie de chanter, avec les Suisses de Guillaume Tell, « Liberté, redescends des cieux » ?  Jadis cantonnés au rôle de commentateurs des aventures des héros, ils s’affirment désormais en tant que groupe et c’est ce que font les Hébreux en particulier dans le célébrissime « Va pensiero ».

D’où l’idée de Christiane Jatahy de placer au sein du public des interprètes, peut-être dans l’espoir que les spectateurs seront transformés par ce voisinage. Elle appelle à une révolution intérieure, comme dans ces réunions évangéliques où les curieux, stimulés par la foi démonstrative des fidèles, sont appelés à se convertir. Et plus il y aura de conversions et plus la force collective grandira, et plus elle pourra influencer la société indépendamment des élites qui manipulent le peuple pour accaparer le pouvoir. Verra-t-on, à la fin du cycle – dernière le 29 juin – des Bastilles tomber à Genève ? Force nous est d’avouer que le vibrato prononcé de la choriste proche nous a surtout embarrassé, et peut-être en a-t-il été de même pour les spectateurs qui, ayant dû se lever pour permettre aux choristes disséminées de rejoindre leur groupe, se sont placidement rassis.

A deux reprises les chœurs s’aligneront le long des murs du parterre, en particulier à la fin voulue par Christiane Jatahy, qui a imaginé de leur faire rechanter le « Va pensiero » après la mort de la repentie Abigaille. Pour faire la soudure entre le final et cette reprise, Antonino Fogliani, qui dirige les représentations, a accepté d’écrire un intermezzo, ce qui n’a pas dû tourmenter ce compositeur contrarié. En deux minutes il instille une palette sonore qui a éveillé en nous des échos de Hindemith et de Webern, quand l’auteur nous suggère Sciarrino. Quoi qu’il en soit ce déplacement vers un univers sonore différent est fait assez habilement pour ne pas traumatiser l’auditeur et il permet à la metteuse en scène de refaire entendre ce chœur dont les lecteurs savent qu’il est une plainte nostalgique. Si encore il s’agissait d’un manifeste incitant à l’action… Avouons-le, le pourquoi de cette reprise nous échappe.

Le spectacle lui-même ne laisse pas d’interroger. A scène ouverte, des miroirs qui reflètent la salle à la vaste traîne qui sera parure et entrave d’Abigaille, du plan d’eau où les solistes pataugent  à la fonction dramatique mystérieuse d’une pluie diluvienne, Thomas Walgrave et Marcello Lipiani créent des images auxquelles vont s’ajouter les projections coordonnées par Batman Zavareze, et les prises de vue de Paolo Camacho. Les caméras, instruments « de surveillance » comme quand Zaccaria les utilise pour manipuler les Hébreux, peuvent être des instruments de lutte, selon la metteuse en scène. Et le spectateur est bombardé d’images, dont beaucoup de gros plans. Mais comme ces images ne sont pas celles fictivement reprises par les caméras visibles sur scène mais le montage d’images enregistrées auparavant, on peut constater des décalages entre l’image du chanteur et ce que l’on entend, et ainsi est créée l’impression fâcheuse d’un play-back. Et l’on en revient à se demander si ce mélange est productif : par essence, le théâtre met à distance, pour permettre d’y voir clair. Ces tourbillons d’images, y aident-ils ?

Pas d’exotisme orientalisant dans les costumes d’An d’Huys : des vêtements contemporains sans recherche particulière, complet bleu pour Nabucco et son armée, pantalon pour Abigaille dont la volonté de pouvoir est perçue par Christiane Jatahy comme « masculine ». Mais une trouvaille singulière : Zaccaria impose à Fenena une robe que nous avons d’abord associée à la tenue des prêtresses du candomblé avant de lire dans le programme qu’il s’agit d’une « robe de mariée façon burka de Balenciaga Haute Couture ». Par la suite un groupe de cinq – ou six ? – portant la même toilette qui dénie une identité à celles qu’elle recouvre passera en procession, probablement symbole de l’oppression féminine, et deux d’entre elles s’écrouleront.

Nous sera-t-il permis de regretter, devant l’ampleur des moyens mis à disposition des réalisateurs, ne serait-ce qu’en choristes et figurants – pas loin de cent personnes sur scène, sans compter les solistes – le traitement des épisodes merveilleux ?  L’intervention divine qui terrasse Nabucco impressionne peu, comme inachevée, et la destruction de l’idole de Baal est purement et simplement escamotée. Le spectacle semble s’adresser au public qui a déjà vu cinq ou six Nabucco. Rappelons une fois encore que la survie de l’opéra dépend de ceux qui y vont pour la première fois et auront envie d’y retourner !

Il est temps d’en venir à ce qui, pour nous, constitue le véritable évènement et justifie amplement qu’on courre à ce spectacle. L’orchestre de la Suisse Romande brille de tous ses feux et délivre une exécution pleine de raffinements, tous pupitres réunis. Les musiciens épousent la conception d’Antonino Fogliani pour qui cet opéra est le coup de dé qui décidera du destin de Verdi musicien. Avec ferveur il modèle les phrases, soutient l’énergie, colore les contrastes, révèle le lyrisme séducteur ou péremptoire d’une écriture où circulent déjà les prémices d’idées musicales qui nourriront  Macbeth et Rigoletto. Purgé de tout accent vériste, ce Nabucco qui tient encore au bel canto redevient le maillon entre le passé proche et l’avenir qu’il annonce. C’est délectable en soi et cela l’est d’autant plus dans cette interprétation amoureuse.

Ce bonheur monté de la fosse, le plateau ne l’altère pas. Dans les courts rôles de Fenena, d’Abdallo et du Gran Sacerdote de Baal, trois membres du Jeune Ensemble du Grand Théâtre, cette mini-troupe constituée de jeunes chanteurs à l’orée de leur carrière. Pour chacun d’eux il s’agit d’une prise de rôle, et c’est une joie de constater leurs qualités et leur engagement. Les notes aigües de la  mezzosoprano Ena Pongrac semblent encore un peu vertes, mais elle phrase bien le cantabile de son adieu à la vie. Le ténor Omar Mancini campe le fidèle de Nabucco d’une voix bien sonore et celle de William Meinert a la profondeur requise pour l’homologue assyrien de Zaccaria. Giulia Bolcato, membre elle aussi du Jeune ensemble, s’efforce de combler par sa présence scénique le rôle encore plus effacé d’Anna, la sœur de Zaccaria.

Davide Giusti, d’une voix vigoureuse, donne un relief notable à Ismaele, le neveu du roi d’Israël qui par amour protège la fille du souverain ennemi, et il restitue la complexité d’un personnage parfois dédaigné. De Zaccaria, Riccardo Zanellato a la noblesse ; mais dans cette production, le personnage est un manipulateur et sa noblesse n’est qu’une affectation destinée à tromper la crédulité du peuple qui se détournera de lui. L’acteur parvient avec finesse à rendre sensible cette duplicité. Le chant est policé, racé, mais on ne peut se défendre de souhaiter un peu plus de volume à son entrée, alors que rien dans le décor ne vient renvoyer la voix.

Il faut dire qu’entre sa pseudo-fille et Nabucco il affaire à de fortes pointures. Saioa Hernandez obtiendra un triomphe mérité par la bravoure avec laquelle elle affronte et domine le rôle d’Abigaille. Il y a bien quelques aigus métalliques, mais cela s’oublie vite quand les suivants ne le sont pas et que la voix cavalcade des cimes aux tréfonds, incisive, percutante, voire brutale, avant de s’alanguir dans l’évocation de l’amour qui aurait pu, qui pourrait être, brossant ainsi un portrait tout en nuances de la mal-aimée. Dans le rôle-titre Nicola Alaimo semble tout à son aise alors qu’il essuie lui aussi son baptême du feu. C’est une jouissance d’être gratifiés de la maîtrise d’une voix qui semble avoir retrouvé toute sa plénitude et d’une interprétation qui ne laisse rien à désirer sur le plan vocal ou scénique. On s’abandonne au plaisir et à la joie de penser que la lumière vocale est le reflet d’une paix reconquise. Triomphe pour lui aussi, évidemment, pour Antonino Fogliani, et, nous l’avons dit, aucune dissension perceptible pour la proposition scénique. On aura compris qu’elle ne nous a pas convaincu de sa pertinence, mais les bonheurs musicaux et vocaux sont tels qu’elle ne peut les amoindrir !

Qui trop embrasse mal étreint

Claudio Poloni – ConcertoNet.com – 13 juin 2023

source: http://www.concertonet.com/scripts/review.php?ID_review=15702

 

Pour clore sa saison 2022‑2023, le Grand Théâtre de Genève présente une nouvelle production de Nabucco signée Christiane Jatahy. La metteure en scène et cinéaste brésilienne, qui a reçu un Lion d’or pour l’ensemble de sa carrière à la Biennale de Venise l’année dernière, est la nouvelle coqueluche des planches théâtrales, et on imagine aisément que les directeurs d’opéra doivent aussi la courtiser. Le chef‑d’œuvre de jeunesse de Verdi est son deuxième essai lyrique, après Fidelio à Rio de Janeiro. Christiane Jatahy a voulu abolir les frontières entre salle, fosse et scène pour rapprocher le drame du public, pour que ce dernier fasse en quelque sorte partie du spectacle, en immersion totale pourrait‑on dire. Par une débauche de moyens technologiques, elle a tenté de créer un nouveau cadre spatio‑temporel, mais le spectateur est tellement sollicité par tout ce qui se passe autour de lui que c’est exactement l’inverse qui se produit : on a de la peine à entrer dans la trame tant l’œil est distrait de toutes parts. Deux immenses miroirs superposés au fond du plateau, dont un inclinable, reflètent la salle et le public, mais aussi la fosse et une partie de la scène. Des choristes, qui se lèvent lors de leurs interventions, sont assis au parterre parmi les spectateurs, ainsi qu’aux balcons. Des figurants et des solistes entrent dans la salle avant de monter sur scène (on aurait pu, soit dit en passant, aller plus loin dans le procédé en installant des spectateurs sur scène, ce qui s’est déjà vu à l’opéra). Le miroir inférieur se transforme en écran géant sur lequel sont projetés des gros plans des solistes, des choristes et des figurants, grâce à deux cameramen qui se déplacent sans cesse sur le plateau (malheureusement, il y a constamment quelques secondes de décalage entre l’action sur scène et les images, ce qui est particulièrement gênant lorsqu’on voit le visage des chanteurs en plan rapproché). Des vidéos, très belles au demeurant, sont aussi projetées sur tout le cadre de scène et même sur les parois de la salle, comme par exemple des gouttes de pluie qui donnent l’impression saisissante d’envelopper tout l’auditoire. C’est indéniable, le concept est original et novateur, extrêmement esthétisant et intéressant de surcroît, mais on ne peut s’empêcher de se demander ce qu’il apporte vraiment à l’intrigue de l’opéra. On a le sentiment d’assister à un déballage de gadgets les uns plus spectaculaires que les autres. Mais trop de technologie finir par distraire et tuer toute émotion. Force est de reconnaître cependant qu’au rideau final, Christiane Jatahy et toute son équipe ont été acclamées et très chaleureusement applaudies par une large partie du public.

Musicalement, le spectacle s’appuie sur une distribution de haut niveau et un orchestre en grande forme. En Nabucco, Nicola Alaimo réussit une prise de rôle convaincante : phrasé impeccable, legato exemplaire, son personnage impressionne tout d’abord par sa fierté, son autorité et ses interventions véhémentes avant de se montrer vulnérable et de faire preuve d’une humanité émouvante, rehaussée par le fait qu’il ne porte aucun costume, simplement vêtu d’une veste et d’un pantalon bleu marine, sur un plateau vide, plongé dans le noir. Riccardo Zanellato séduit en Zaccaria à l’émission ductile et au legato superbe, quand bien même le registre grave semble un peu émoussé. Saioa Hernandez livre une performance mitigée dans le rôle meurtrier d’Abigaille : sur la réserve dans la première partie du spectacle, avec des vocalises peu nettes et des aigus souvent étouffés, elle apparaît nettement plus à son affaire en fin de soirée, avec une projection insolente, des accents incisifs et des pirouettes vocales parfaitement ciselées cette fois. Ismaele ardent et particulièrement combatif, Davide Giusti semble néanmoins constamment à la limite de ses possibilités vocales, donnant l’impression de toujours chanter en force. Si sa voix sombre et corsée fait illusion au début du spectacle, Ena Pongrac en Fenena s’effondre totalement dans son grand air (« Oh, dischiuso è il firmamento ») en raison de problèmes d’intonation, d’aigus engorgés et de vocalises mal négociées.

A la tête d’un Orchestre de la Suisse Romande des grands soirs, Antonino Fogliani, qui connaît la partition sur le bout des doigts, commence par offrir une Ouverture un peu sèche avant de se rattraper avec une exécution lyrique et passionnée, extrêmement pulsante, mettant parfois en difficulté le chœur et les solistes. Christiane Jatahy a voulu terminer son spectacle par le célébrissime « Va pensiero » chanté a cappella par les choristes disséminés un peu partout dans la salle, jusqu’au dernier balcon, et toutes lumières allumées dans l’auditoire. Ces pages, qui sont devenues en quelque sorte le second hymne national italien, ont fait frissonner les spectateurs, d’autant que le Chœur du Grand Théâtre a été impressionnant de précision, de cohésion et d’intensité, tout au long de la soirée d’ailleurs. Pour assurer la transition entre cette répétition et la fin de l’ouvrage de Verdi – lequel aurait dû, rappelons‑le, se terminer par le chœur « Immenso Jéhovah », mais qui s’achève sur un air d’Abigaille, à la demande de la prima donna de la création, Giuseppina Strepponi, seconde épouse du compositeur – le chef Antonino Fogliani a composé un intermezzo symphonique d’allure chambriste et aux dissonances marquées. La pertinence de cet ajout ne saute pas aux yeux. Quoi qu’il en soit, tous les protagonistes du spectacle ont été longuement ovationnés au rideau final. Il n’empêche, on quitte la salle avec des sentiments mitigés : pas sûr que toute la technologie déployée, si spectaculaire soit‑elle, serve réellement l’opéra...

Nabucco e gli oppressi di oggi

Valentina Anzani – Il Giornale della Musica – 13 juin 2023

source: https://www.giornaledellamusica.it/recensioni/nabucco-e-gli-oppressi-di-oggi

 

La nuova produzione di “Nabucco” del Grand Theatre di Ginevra conquista e commuove

Christiane Jathay è una regista teatrale e cinematografica che porta nel suo “Nabucco” (in scena al Grand Theatre di Ginevra fino al 29 giugno) contaminazioni di rottura e innovazione. La sua è una proposta concettuale, dall’efficacia visiva di grande impatto, sicuramente divisiva come lo sono tutte le vere sperimentazioni, ma mai scontata. Necessita di un gran team di lavoro e importa nell’opera la proiezione di riprese live, di grandi schermi specchianti, di un’enorme pozza d’acqua al centro del palcoscenico. Lo spettacolo si rivela pieno di sorprese, a partire dalle voci femminili del coro che, mimetizzate tra il pubblico, si alzano in piedi per cantare come in un flash mob operistico.

Ottimo il cast vocale, soprattutto sul versante maschile. Al suo debutto nel ruolo, Nicola Alaimo delinea un Nabucco shakespeariano, erede di Re Lear: il suo carattere di artista a tutto tondo lo rende credibilissimo alternativamente sia quale sovrano altero sia quale inerme folle. Il suo declamato è tutto giocato sulla parola e la precisione nel porgere il suono, coadiuvate dalle  disarmanti espressioni del volto e delle mani. Riccardo Zanellato è uno Zaccaria autoritario, dall’espressività duttile: carismatico leader, è il suo timbro inconfondibile a dare unicità alla sua interpretazione, insieme alla particolare attenzione che porge alle dinamiche, al sostegno del fiato, ai pianissimi impalpabili.Piace la prova di Davide Giusti come Ismaele: il ruolo è pesante e difficile, ma stupisce e convince pienamente la freschezza giovane con cui lo fa suo e lo plasma. Saoia Hernández è una Abigaille sanguigna (bellissima nel suo farsi carico di un potere che è concettualizzato da un enorme, pesantissimo telo inzuppato d’acqua, o intriso di responsabilità), Ena Pongrac una Fenena indifesa (straziante il modo in cui viene portata in scena al suo primo apparire, vera vittima insidiata).

Antonino Fogliani alla direzione musicale propone una lettura molto intima e a tratti commovente: diversi i tagli e le interpolazioni non verdiane (aggiunge anche un intermezzo sinfonico da lui firmato a fine opera) ma sono tutte drammaturgicamente giustificate e rilevanti. Il coinvolgimento del pubblico nella rappresentazione (le coriste che cantano in platea, i grandi specchi che riflettono sul palcoscenico l’immagine di tutti gli astanti) si traduce in una provocazione e allo stesso tempo in un passaggio di testimone delle responsabilità dei singoli — dall’astratto al quotidiano — rispetto ai temi sollevati in questa lettura dell’opera: popoli oppressi e oppressori, da libretto rispettivamente israeliti e babilonesi, sono idealmente popoli di moderni migranti, con le contraddizioni dell’essere tali, le difficoltà, l’emarginazione. Lo spettatore si sente così chiamato in prima persona a riflettere su temi caldi della contemporaneità, e in una virtuale vicinanza con gli oppressi dell’oggi.

Un Nabucco de transparences

Thibault Vicq – Opera-Online.com - 12 juin 2023

source: https://www.opera-online.com/fr/columns/thibaultv/un-nabucco-de-transparences-a…

 

Pour clore sa saison sur le thème « Mondes en migration » au Grand Théâtre de Genève, Aviel Cahn s’est penché sur Nabucco. Le fameux chœur des esclaves hébreux en exil, « Va pensiero, sull’ali dorate », tombe en plein de mille, et c’est à Christiane Jatahy, metteuse en scène brésilienne qui a fait des frontières sa spécialité dramaturgique et reçu en janvier 2022 le Lion d’Or de la Biennale de Venise pour l’ensemble de son œuvre, de proposer un regard contemporain sur cet opéra du jeune Verdi, sa deuxième réalisation lyrique après Fidelio. Lire l’indigeste interview-concept du programme de salle – on y parle d’individualité contre collectivité, de « rendre visible l’invisible », de « palimpseste » théâtral, de « post-quatrième mur » – ne change rien au regard que le public peut porter à sa lecture. L’abstraction intello masque surtout une véritable absence de point de vue sur les personnages, tous traités avec énormément de distance, dans un espace scénique trop grand pour eux. La réalisation, avec ses grands miroirs inclinables, sa vidéo en direct ou pré-tournée, sa pataugeoire qui se remplit puis se vide d’eau, confirme une maîtrise que Christiane Jatahy a acquise au fil de ses projets passés. Mais ici, il ne reste ni cinéma ni théâtre. Ne subsistent que des tableaux joliment faits (quoiqu’un peu poussifs dans la symbolique répétée) et apeurés par la direction du plateau vocal, en particulier dans les troisième et quatrième acte, réduits au minimum syndical. Sa carrière théâtrale cherche à réenchanter le documentaire par l’écriture et le regard ; des outils qui lui manquent à l’opéra pour vraiment convaincre.

La metteuse en scène déplace le Chœur du Grand Théâtre de Genève sur scène et en salle pour montrer ses visages et faire entendre ses voix. Le « Va pensiero » retentit d’ailleurs une seconde fois, en conclusion a cappella, toutes lumières allumées. Le moins que l’on puisse dire, c’est qu’Alan Woodbridge a préparé la phalange genevoise jusqu’au firmament de leurs pianissimos, dans leurs rainures inoxydables, dans leur repartie vocale. Le partage du son entre ses membres est d’une fluidité impressionnante : chacun s’adapte en temps réel à la projection du voisin, et ce peuple universel réussit musicalement ce que la metteuse en scène peine à instaurer.

L’Orchestre de la Suisse Romande mérite lui aussi des éloges pour la qualité de ses textures partagées et son écoute entre pupitres. Antonino Fogliani lui insuffle une euphorisante dynamique de meute enchaînée, prête au soulèvement. Il tient ainsi les rênes d’une masse instrumentale aux élans de folie, mais surtout enrobés dans un même corps. Les thèmes trouvent un confort insoupçonné sur des remarquables puddings d’accompagnement gorgés de vie, superposés de mouvements multiples en une structure compacte de cuir d’anches, de bois, de crins et de baguettes. Là encore, le côté rassembleur se manifeste dans une fête de couleurs en pleins feux, où le tempo atteint une exactitude dramatique grâce au temps libre entre les temps fixes, toujours dans un flux en dialogue avec la distribution vocale.

La prise de rôle de Nicola Alaimo en Nabucco utilise le silence et la respiration comme outils d’une exploration psychologique limpide à hauteur d’humain. Ce caractère distinctif, aux côtés d’une interprétation gorgée d’affect, lui fait distiller un ambivalent poison-remède dans sa phrase, fidèle aux aspirations changeantes du roi de Babylone, même s’il lui reste encore à dompter complètement l‘écriture du personnage. Saioa Hernández restitue toute la tessiture d’Abigaille dans un tempérament projectif inouï et une consécration technique. Cependant, les nuances ne sont que proportionnelles à la hauteur des notes, elles-mêmes émises avec un pathos assez généralisé plutôt qu’en lien avec le livret et la partition. La soprano exagère un peu trop ses rallentandos et le poids de ses interventions, pour lesquelles moins de contrôle ostentatoire auraient pu faire compatir davantage envers cette « méchante » meurtrie, dont on devine seulement in fine la douleur expressive. Malgré son peu de graves, Riccardo Zanellato est un Zaccaria marbré, qu’on ne peut contredire. Il pose, appose, suppose, dépose, sans jamais perdre de sa superbe homogénéité en lévitation. Le ténor Davide Giusti (Ismaele) est un maçon des petits pas, pour un timbre pulpé qui fait mouche. Fenena un brin rigide, Ena Pongrac fait tout de même preuve d’une belle présence scénique.

Trop visiblement direct ou trop profond d’espaces et d’images, ce Nabucco désincarne ses protagonistes ou les convoque à un excessif élan collectif, quand le livret aurait demandé plus de caractérisation. La musique, elle, laisse défiler ces fantômes éternels.

 

 
 

 

 

«Nabucco» ou l’opéra en immersion totale

Rocco Zacheo – Tribune de Genève – 12 juin 2023

source: https://www.tdg.ch/nabucco-ou-lopera-en-immersion-totale-357904298875

 

Avec un chœur au milieu du public et des images enveloppantes, le Grand Théâtre rapproche le spectateur de la scène, dans une production au clinquant problématique.

On imagine difficilement meilleur épilogue de saison que celui qu'a connu le Grand Théâtre dimanche soir, au tomber de rideau de la première de «Nabucco». La pièce de Giuseppe Verdi est venue clore l'exercice 2022-2023 dans une nouvelle production audacieuse, qui a littéralement soulevé la salle. Il y aurait des dizaines de petits et grands détails à cueillir, de choix de mise en scène et d'options musicales tranchées pour expliquer la longue ovation qui a accompagné le départ de la distribution et de la direction artistique. Les plus prégnants ? Ils sont là, dans cette immersion à laquelle invite cette pièce juvénile du compositeur, telle qu'elle s'est présentée au public genevois.

Une vidéo décisive

Elle s'affirme très tôt, cette expérience, avec les premiers airs pour chœur qui annoncent la conquête de Jérusalem par les Assyriens. Soudain, avec ces voix profondes, des silhouettes se lèvent dans le parterre et les premiers balcons, cantatrices et chanteurs surgis comme par surprise depuis leurs sièges pour prolonger au plus près du public ce que dit le plateau. L'effet sonore saisit immédiatement, tout autant que ces images de pluie venues inonder plus tard la salle, dans une projection enveloppante. Ici comme partout ailleurs, l'apport de la vidéo se révèle décisif, et on ne pouvait pas attendre le contraire de la metteuse en scène brésilienne Christiane Jatahy, reconnue et célébrée - un Lion d'or pour l'ensemble de sa carrière à la Biennale de Venise de 2022 - pour ses travaux avec ce médium.

Le dialogue entre la distribution et les écrans s'avère fluide et harmonieux. Captés de près par deux caméramans, les expressions des visages - impressionnantes de justesse celles de Riccardo Zanellato en Zaccaria - et les mouvements des corps montrent l'imposant travail de direction d'acteurs consenti ici. Les supports de projection ajoutent, eux, une touche intrigante, avec leurs textures passant du transparent au miroitant, selon les éclairages signés par Thomas Walgrave. Il y a donc une indéniable beauté plastique dans ce procédé mixte, par ailleurs très présent aujourd'hui dans les propositions lyriques.

Mais par-delà sa forme clinquante, le flux incessant d'images semble diluer progressivement le drame, en éclairant peu les enjeux du livret, qui perd ainsi progressivement de sa consistance. Constat qui s'étend petit à petit dans tous les recoins, qu'il s'agisse du drame collectif que vivent les Hébreux captifs du roi de Babylone, le tyrannique Nabucco, ou qu'il soit question de l'intrigue amoureuse qui oppose la fille du roi, Fenena, à sa rivale, la bâtarde Abigaille. On aurait aimé davantage de caractérisations, de relief et de secousses dans ces oppositions. Il y a plus problématique encore, dans un final qui fait surgir d'autres doutes, plus imposants.

À Genève, il faut oublier tout ce que l'on sait du dénouement imaginé par Verdi. Celui-ci est dépossédé de son épilogue qui se voit remplacé par un autre, conçu spécialement pour l'occasion. La retouche, il faut le dire, n'a rien de cosmétique : la perfide Abigaille ne trépasse pas après avoir avalé le poison et demandé pardon pour sa trahison. Quant à Zaccaria, il n'adresse pas non plus à Nabucco sa dernière prophétie, «Servendo a Jeovha sarai de' régi il re!» (En servant Jéhovah, tu seras le roi des rois », suivie de ce tonitruant fortissimo du chœur chantant.

À la place, le chef Antonino Fogliani, sous la suggestion de Christiane Jatahy, a écrit une passerelle musicale, un «intermezzo symphonique» aux allures plutôt chambristes et aux dissonances prononcées. Le passage menant vers une reprise – chœur à nouveau dans la salle - du célèbre «Va, pensiero, sull'ali dorate», chant des esclaves hébreux. L'option irritera peut-être les puristes, tous ceux qui gardent un attachement à l'esprit de la lettre originale. D'autres, comme la plupart du public de la première, seront sans doute émus par cet air majestueux et poignant auquel, il est vrai, on résiste difficilement.

Époustouflante Abigaille

Sur le front musical, ce « Nabucco» affiche des atouts plus que solides. Le Chœur du Grand Théâtre confirme une fois encore sa puissance, l'étendue de ses nuances expressives dans les passages les plus sombres, et enfin, sa précision. Dans la distribution, Saioa Hernândez a été une Abigaille simplement époustouflante, en embrassant sans anicroche, d'une voix onctueuse et aux mille gradations, ce rôle terrassant, dont la tessiture s'étend sur deux octaves.

Nicola Alaimo, qui endossait pour la première fois le rôle-titre, a paru moins subtil, forçant sur les forte dans les deux premiers actes, mais il s'est bonifié plus loin, avec notamment l'air-prière «Dio di Giuda» empreinte de piété. Dans les rôles principaux, Riccardo Zanellato n'a pas les graves d'une basse profonde ni une projection décoiffante, mais sa présence scénique s'accorde parfaitement au personnage de Zaccaria. Un mot enfin de la fosse, où l'Orchestre de la Suisse romande, sous la direction d'Antonino Fogliani, a été particulièrement inspiré.

Nabucco en vidéo, les pieds dans l'eau

Stéphane Lelièvre - bachtrack.com - 12 juin 2023

source: https://bachtrack.com/fr_FR/critique-nabucco-fogliani-jatahy-alaimo-hernandez-p…

 

Il n’est pas exagéré de dire qu’il est plus difficile de réussir un Verdi de jeunesse qu’un Verdi de la maturité, une baguette simplement « fonctionnelle » ayant tôt fait de souligner certaines facilités dans l’écriture, au niveau harmonique ou rythmique. Les chefs les plus au fait de cette esthétique très particulière parviennent au contraire à transcender ce langage en apparence un peu fruste en fougue irrésistible. C’est le cas d’Antonino Fogliani qui, à la tête d’un Orchestre de la Suisse Romande en grande forme, délivre au Grand Théâtre de Genève une lecture fort convaincante de Nabucco, ne reniant nullement l’héritage belcantiste de l’œuvre tout en en soulignant certaines fulgurances, annonciatrices des chefs-d’œuvre de la maturité.

Les affinités entre ce chef et le jeune Verdi semblant évidentes, on ne peut que s’étonner de la mutilation opérée sur certaines pages, les cabalettes de Zaccaria ou d’Abigaïlle étant amputées de leurs reprises – lesquelles font pourtant partie intégrante de l’ADN de cette musique. Autre entorse faite à l’intégrité de la partition : l’ajout d’un intermède instrumental (signé Antonino Fogliani) qui permet d’introduire, juste après la mort d’Abigaïlle, une reprise de « Va pensiero », chanté a cappella par les choristes placés au parterre parmi les spectateurs. Le chœur fera par ailleurs montre de ses habituelles qualités de précision et de musicalité – en dépit de quelques décalages qui, curieusement, n’apparaîtront pas aux moments les plus « périlleux », c’est-à-dire lorsque les choristes se retrouvent disséminés parmi les spectateurs.

Confier la mise en scène de Nabucco à Christiane Jatahy, dénonciatrice du patriarcat, des dictatures et de l’oppression des peuples, était a priori une bonne idée. Le résultat cependant s’avère moins séduisant qu’on ne pouvait l’espérer. On voit surtout une succession de procédés, dont la plupart sont connus depuis (très) longtemps : un bassin rempli d’eau dans lequel pataugent les personnages (procédé très en vogue actuellement…) ; un grand miroir incliné suspendu reflétant l’orchestre et le public ; les lumières de la salle qui s’allument au finale de l’œuvre ; l’usage de la vidéo avec cameramen filmant en direct sur scène… Mais cela suffit-il à constituer une lecture et à renouveler notre perception de l’œuvre ?

Trop souvent par ailleurs, le spectateur, entre les cameramen, les acteurs filmés, les images projetées, les surtitres, les choristes disposés dans le théâtre, ne sait plus où donner de l’œil et en oublie l’essentiel, à savoir la musique. Au crédit de Christiane Jatahy et de son équipe, il faut cependant porter le fait de ne pas avoir cherché à raconter une autre histoire que celle du livret – et de ne pas avoir choisi le parti pris systématique de la laideur, certains tableaux s’avérant même à la fois très beaux et forts dramatiquement (le déluge qui s’abat sur scène à la fin de la première partie, Abigaïlle drapée dans son immense robe dorée au début de la deuxième).

Vocalement, la distribution offre de belles satisfactions, jusque dans les petits rôles (belles interventions d’Omar Mancini en Abdallo). Davide Giusti, Ismaele fougueux, très présent scéniquement et vocalement, et Ena Pongrac (Fenena) forment un couple d’amoureux convaincant, même si le legato de la seconde peut encore gagner en velouté dans sa prière finale. Riccardo Zanellato campe un patriarche digne et crédible, dans l’autorité et plus encore dans le recueillement (superbe prière « Vieni, o Levita ! »). Nicola Alaimo (Nabucco) réussit pleinement sa prise de rôle : évitant toute conception manichéenne du rôle (tyran d’abord détestable puis homme brisé et repenti), il confère au personnage une certaine fragilité dès les deux premières parties, et touche profondément dans sa confrontation avec Abigaïlle (« Deh, perdona a un padre che delira ») ou dans sa prière finale, grâce à un chant soigné, un timbre à la morbidezza émouvante et un contrôle du souffle impressionnant lui permettant de superbes et longues phrases legato.

On était curieux d’entendre l’Abigaïlle de Saoia Hernández, très convaincante dans le répertoire fin de siècle (Tosca, La Wally…) où l’autorité de la projection et la beauté du timbre sont des atouts fort appréciables. Mais le rôle d’Abigaïlle, encore assez fortement tributaire de l’écriture bellinienne, donizettienne voire rossinienne, demande également de tout autres qualités : une agilité à toute épreuve dans des coloratures di forza, mais aussi un chant legato raffiné. Bref, un défi quasi insurmontable… Saoia Hernández possède de toute l’évidence la puissance vocale requise par le rôle, de même qu’elle maîtrise les terrifiants sauts de tessiture qui émaillent la partition. Le registre suave ou élégiaque la trouve légèrement moins à son aise : la ligne de chant y reste très soignée, mais la mort d’Abigaïlle (« Su me, morente, esanime… »), cantilène d’inspiration directement bellinienne avec son superbe accompagnement de violoncelle et de cor anglais, demande une voix moins pulpeuse, presque déjà désincarnée pour toucher vraiment. Enfin les coloratures du rôle sont abordées de façon plus que prudente… Mais la prestation reste impressionnante, la chanteuse recevant au rideau final, comme tous les artistes, de très chaleureux applaudissements.

Nabucco de la scène à la salle

José Pons - Olyrix.com – 13 juin 2023

source: https://www.olyrix.com/articles/production/6862/nabucco-verdi-11-juin-2023-arti…

 

Pour conclure la saison lyrique-scénique du Grand Théâtre de Genève intitulée « Mondes en migration », Aviel Cahn a confié à la metteuse en scène, cinéaste et actrice brésilienne Christiane Jatahy le soin de porter à la scène le premier ouvrage lyrique d’importance et de transition esthétique de Giuseppe Verdi : Nabucco.

Christiane Jatahy, récipiendaire en 2022 du prestigieux Lion d’Or de la Biennale de Venise pour l’ensemble de son œuvre théâtrale, est connue pour sa transposition des ouvrages qu’elle présente dans le monde contemporain. Très attentive à la situation internationale, aux extrémismes et aux épisodes de migrations forcées qui en découlent, elle fait appel dans son approche scénique et pour sa réalisation aux outils les plus actuels, comme la projection de vidéos pré-enregistrées et le gros plan via des caméras à l’épaule confiées à des spécialistes mais aussi comme ici à des interprètes (Le Grand Prêtre Zaccaria), ou via la transparence des parois.

Un vaste miroir/écran inclinable présent sur scène accueille et réfléchit le public avant le spectacle, l’impliquant ainsi directement au sein du drame qui va se dérouler sous ses yeux. Il en va de même pour l’orchestre et surtout le chef d’orchestre, Antonino Fogliani qui apparaît comme en filigrane tout au long de la représentation.

Christiane Jatahy fait par ailleurs entrer le spectacle en salle notamment au premier acte où une partie du chœur féminin se dresse, lors de leur première intervention chantée, parmi les spectateurs présents. De même, le chœur masculin surgit-il par les différentes portes de la salle lors de l’entrée triomphale de Nabucco.

Les moments visuellement superbes se succèdent ainsi comme cette pluie battante qui se reflète dans les lumières, ces pataugeoires qui accueillent les combats ou cette robe immense revêtue par Abigaïlle et dans laquelle elle semble s’emprisonner elle-même à la manière de ses ambitions démesurées. L’eau occupe une place particulière durant la représentation comme semble-t-il un clin d’œil au baptême. Nabucco trempé rejettera les dieux païens pour le dieu unique des Juifs.

La metteuse en scène s’est entourée d’une équipe artistique qui répond totalement à ses aspirations : Thomas Walgrave -créateur aussi des lumières- et Marcelo Lipiani pour la scénographie, les costumes d'An D'Huys inspirés du quotidien, Batman Zavareze pour toute la partie de coordination audiovisuelle.

Cette mise en scène nécessite une figuration importante, très diversifiée dans les origines et les genres. Christiane Jatahy projette ainsi en gros plans leurs corps et leurs visages dans une forme d’universalité du propos. Dans sa globalité, le spectacle déploie une réelle force dramatique à laquelle il manque toutefois comme un continuum, les deux derniers actes adoptant un caractère plus dépouillé, plus formel et traditionnel surtout.

Toute la fin de l’ouvrage ici présentée surprend. Verdi souhaitait que son opéra Nabucco se termine après le magnifique chœur, Immenso Jehovah. Mais à la demande de la créatrice du rôle d’Abigaïlle et future épouse du compositeur, Giuseppina Strepponi, il dut ajouter un air tout empli d’émotion et de repentance dans lequel l’héroïne se remet entre les bras de Dieu. Christiane Jatahy souhaitait pour sa part que la conclusion s’effectue sur une reprise par le chœur depuis la salle et ses étages du fameux Va, Pensiero. À sa demande, Antonino Fogliani a composé un bref intermezzo symphonique aux résonances et dissonances actuelles afin de relier l’ensemble. Bien entendu, l’impact sur le public présent de cette proposition particulière a été fort et très largement applaudi.

Au plan musical, les plus vifs compliments sont également adressés par l’auditoire, en premier lieu au Chœur du Grand Théâtre de Genève et à son directeur, Alan Woodbridge. La beauté et la qualité intrinsèque du son, la cohérence et la justesse expressive, l’ardeur aussi dont il fait preuve, les pianissimi miraculeux qui concluent leur double interprétation variée du Va, Pensiero comblent d’aise.

À la tête de l’Orchestre de la Suisse Romande, Antonino Fogliani, grand habitué de la scène genevoise, se soucie en premier lieu de restituer la musique de Verdi dans toutes ses composantes, sa splendeur et son exactitude pleine et entière. À aucun moment, il ne cherche à surcharger la ligne ou à accentuer les effets. Il livre une lecture de la partition rigoureuse et articulée, certes profondément dramatique mais aussi soucieuse du détail.

Nicola Alaimo effectue sa prise de rôle en Nabucco. Cette vaste voix de baryton trouve à pleinement s’épanouir ici, avec ce mordant dans le phrasé qui le caractérise et une urgence qui convient à ce personnage ambigu qui passe du tyran envahisseur au père anxieux du sort de sa fille Fenena pour parvenir à cet homme touché par la grâce. Les représentations ultérieures lui permettront assurément de mieux encore approfondir l’écriture vocale de Nabucco notamment durant les phases de folie, premier grand baryton-Verdi du répertoire.

Saioa Hernández affronte le rôle terrifiant d’Abigaïlle avec une projection vocale d’une rare intensité tout en déployant un arsenal technique assuré et un tempérament dramatique qui se livre ici tout entier. Les parties vocales extrêmes du grave à l’aigu et les sauts d’octaves démesurés imposés par le compositeur au personnage apparaissent dominés avec assurance, sinon une totale et irrémédiable facilité. Certaines vocalises pourraient être un peu plus déliées, mais son interprétation de l’air “Anch’io dischiuso un giorno” (Moi aussi, j'ai ouvert un jour mon cœur au bonheur), totalement inspiré de l’héritage belcantiste, apparaît comme un modèle de beau chant modulé, porté par un art évident de la fioriture. L’artiste révèle dans ce rôle les multiples aspects de son profil vocal et ses fort larges possibilités.

La basse Riccardo Zanellato peine constamment dans les parties graves du rôle, peu puissantes et manquant de soutien. Mais le personnage tient toute sa place de Grand-Prêtre du Peuple Juif par sa véhémence et son intransigeance. Son interprétation nuancée et de grande classe par sa tenue de la Prière de l’acte II donne ainsi son plein caractère.

La prestation du ténor italien Davide Giusti impulse beaucoup de caractère et de présence au jeune Ismaël. La voix sonne vaillante, claire et sonore, avec un aigu qui répond avec facilité.  La soprano légère Giulia Bolcato donne effectivement corps vocal au bref rôle d’Anna. Les autres rôles sont tenus par des artistes Membres du Jeune Ensemble de l’Opéra. Ena Pongrac incarne ainsi avec conviction et sensibilité le rôle important de Fenena. La voix possède une belle couleur de mezzo-soprano, même si l’aigu paraît un peu tendu notamment à l’acte IV. Omar Mancini installe sa voix de ténor bien timbrée pour marquer le rôle d’Abdallo, tandis que William Meinert s’illustre par la solidité de sa voix de basse en Gran Sacerdote.

Le public suisse manifeste avec force et enthousiasme sa pleine satisfaction devant ce spectacle de qualité et original. 7 autres représentations sont programmées jusqu’au 29 juin prochain, sachant qu’il sera possible de revoir ce Nabucco sur les scènes des coproducteurs, les Théâtres de la Ville de Luxembourg, l’Opéra de Flandre et celui de la Maestranza de Séville ces prochaines saisons.